La città bruciava.
Jack Carter osservava le fiamme riflettersi nelle finestre dei grattacieli vuoti, il cielo sopra di lui velato dal fumo nero. Le strade, una volta affollate di vita, erano ora il palcoscenico di una guerra senza regole. Gruppi di saccheggiatori si muovevano tra i detriti, mentre le urla risuonavano in lontananza, interrotte solo dagli spari.
Stava accovacciato dietro un’auto ribaltata, con il cuore che gli martellava nel petto e i polmoni pieni di polvere e gas lacrimogeno. Accanto a lui, suo figlio Ethan, appena quattordicenne, tremava ma cercava di non farlo vedere. Jack poteva vedere nei suoi occhi la paura, ma anche qualcosa di più: una scintilla di determinazione. Era troppo giovane per affrontare tutto questo. Troppo giovane per vedere il mondo crollare.
«Papà, cosa facciamo?» sussurrò Ethan, la voce spezzata dal terrore.
Jack gli strinse la spalla, cercando di trasmettergli una forza che a malapena sentiva di avere. «Troviamo una via d’uscita. E poi non ci voltiamo indietro.»
Non c’era tempo per discutere. Non c’era tempo per pensare a tutto quello che avevano perso: la casa, gli amici, il futuro che avevano immaginato. Adesso contava solo una cosa: sopravvivere. E Jack sapeva che avrebbe fatto qualsiasi cosa per tenere Ethan al sicuro, anche se significava diventare ciò che aveva passato una vita a cercare di lasciare indietro.
Mentre guidava suo figlio tra le ombre e le macerie, una domanda martellava nella sua mente: Cosa succede quando anche la speranza viene sepolta sotto le ceneri?
Non aveva una risposta. Ma mentre la notte avvolgeva la città in fiamme, Jack giurò a se stesso che avrebbe trovato un modo. Per Ethan. Per loro. Anche se significava affrontare il caos e il pericolo ad ogni passo.
Capitolo 1 – Il Silenzio Prima della Tempesta
Jack Carter osservava il paesaggio urbano dal finestrino sporco della sua modesta jeep, parcheggiata lungo una strada secondaria di Manhattan. Era una giornata grigia, con nubi minacciose che si addensavano sopra la città, riflettendo l’atmosfera tesa che avvolgeva ogni angolo. Proteste si erano diffuse nelle ultime settimane, trasformando le strade in un campo di battaglia ideologico. Jack, tuttavia, non era mai stato un uomo da ideali: era un sopravvissuto, addestrato per risolvere problemi concreti, non per filosofeggiare.
Il telefono vibrò sul cruscotto. Con un gesto stanco, lo afferrò.
«Papà, sto bene, non preoccuparti», disse Ethan dall’altro capo, con il tono sicuro di chi non ha ancora capito quanto il mondo possa essere crudele. «Siamo qui solo per farci sentire. Non c’è pericolo.»
Jack strinse i denti. La voce di suo figlio, così piena di determinazione, lo spingeva a parlare, a mettere in guardia. Ma non voleva iniziare un’altra discussione. Da quando sua moglie era morta, quattro anni prima, i rapporti con Ethan erano diventati fragili, un campo minato dove ogni parola poteva esplodere.
«Ethan, ascolta,» iniziò Jack con cautela, «non tutti quelli che sono lì vogliono far sentire la propria voce pacificamente. Hai sentito cos’è successo a Portland la settimana scorsa?»
«Non siamo a Portland,» ribatté Ethan, con una punta di irritazione. «Smettila di vedermi come un bambino, ok?»
La chiamata si interruppe bruscamente. Jack lasciò cadere il telefono sul sedile accanto, passando una mano sul viso. Il suo istinto gli diceva che qualcosa non andava, ma si forzò di ignorarlo. Forse Ethan aveva ragione: era tempo di fidarsi di lui. Tuttavia, quel tarlo continuava a scavare nella sua mente.
Capitolo 2 – Il Primo Scoppio
Più tardi quel pomeriggio, Jack era a casa, sistemando alcune vecchie foto. Tra i volti sorridenti, c’era quello di Ethan da bambino, che stringeva una palla da football, e accanto sua moglie, Julia, con lo sguardo sereno. Gli sembrava un’altra vita.
Il notiziario sullo schermo della TV attirò la sua attenzione. “Proteste a Union Square degenerano in violenza. La polizia sta cercando di disperdere la folla con gas lacrimogeni.”
Jack si bloccò. Union Square. Il cuore gli balzò in gola. Ethan era lì.
Senza pensarci due volte, afferrò le chiavi della jeep e il suo vecchio zaino militare, che non aveva aperto da anni. Dentro c’erano strumenti di sopravvivenza, una torcia, e una vecchia pistola che sperava di non dover mai più usare. Ma in quel momento, non poteva permettersi di esitare.
Le strade erano un caos: fumo nero si alzava da un edificio incendiato e persone correvano in tutte le direzioni. Alcuni lanciavano pietre, altri cercavano di proteggersi dai colpi di manganello. Jack scese dall’auto e si fece strada tra la folla, il cuore che batteva come un tamburo. Doveva trovare Ethan prima che fosse troppo tardi.
Capitolo 3 – Attraverso il Fuoco
Le urla e i rumori di vetri infranti riempivano l’aria mentre Jack avanzava a fatica tra le strade soffocate dalla folla. Le proteste pacifiche si erano trasformate in un campo di battaglia. Gruppi di persone, volti coperti da maschere e bandane, si muovevano come ombre nelle vie laterali, alcuni armati di spranghe, altri di molotov.
Ogni metro percorso sembrava avvicinarlo a un pericolo sempre maggiore. Jack, con il suo passo calcolato da ex soldato, evitava di attirare l’attenzione, ma l’esperienza gli aveva insegnato che in una situazione del genere bastava un’occhiata sbagliata per scatenare il caos.
Quando raggiunse la periferia di Union Square, il vero orrore gli si parò davanti. La piazza era una fornace. Il fumo nero si alzava da una barricata improvvisata in fiamme, mentre i manifestanti gridavano slogan confusi. La polizia antisommossa avanzava in formazioni compatte, scudi e manganelli in mano, mentre le prime file della folla cercavano di respingerli con qualsiasi cosa trovassero.
Jack si fermò un attimo, il cuore martellante. Era impossibile vedere Ethan in mezzo a quel caos. Prese il telefono, cercando disperatamente di chiamarlo di nuovo. La linea non si connetteva. Forse i ripetitori erano stati danneggiati, o forse il figlio aveva semplicemente perso il cellulare. La tensione gli strinse lo stomaco.
Un grido vicino lo fece voltare. Un gruppo di giovani correva nella sua direzione, inseguito da un furgone della polizia con le luci blu lampeggianti. Jack si accostò a un vicolo, ma quando uno dei ragazzi inciampò e cadde davanti a lui, il suo addestramento prese il sopravvento.
Afferrò il ragazzo per un braccio, sollevandolo in piedi con facilità. «Corri!» gli urlò. Il giovane non si fermò nemmeno a ringraziare e sparì nel vicolo. Jack si rimise in movimento, il respiro pesante. Ogni secondo che passava sembrava un’ora.
Mentre avanzava, Jack notò un gruppo di manifestanti più giovani raccolti intorno a una barricata. Avevano bandiere, zaini, e sembravano organizzati. Tra loro scorse una figura familiare: Ethan.
Il cuore gli si fermò per un attimo. Suo figlio era lì, ancora vivo. Ma prima che potesse chiamarlo, una serie di colpi secchi esplose nell’aria. La folla si disperse in un istante. Alcuni caddero, gemendo, mentre il resto si disperse urlando. La polizia aveva iniziato a sparare proiettili di gomma.
Jack si tuffò dietro un’auto abbandonata, guardando inorridito mentre Ethan veniva separato dal suo gruppo. Il ragazzo, visibilmente terrorizzato, correva verso una strada laterale. Jack si alzò di scatto, gridando il suo nome, ma la sua voce si perse nel frastuono.
Senza esitare, lo seguì.
La strada era stretta e buia, illuminata solo dalle fiamme che danzavano in lontananza. Ethan correva avanti, inciampando sui detriti, mentre un gruppo di manifestanti mascherati si avvicinava da dietro. Jack strinse i denti. Non erano amici.
I passi si fecero più rapidi mentre li raggiungeva. Quando uno degli uomini afferrò il braccio di Ethan, Jack intervenne con un movimento fluido. Afferrò l’aggressore per la giacca e lo spinse contro il muro. Prima che il secondo potesse reagire, un pugno ben piazzato lo mandò a terra.
«Ethan!» gridò Jack, afferrando il braccio del figlio. «Sono io!»
Ethan lo guardò con occhi spalancati, il viso pallido e sporco di fuliggine. «Papà? Come—»
«Parleremo dopo. Muoviti!» Jack lo spinse avanti, coprendogli le spalle mentre tornavano verso la piazza.
Ritornare indietro non era facile. La folla era ancora in subbuglio, e la polizia avanzava con gas lacrimogeni e cannoni ad acqua. Jack cercava di proteggere Ethan il più possibile, ma il ragazzo tossiva e barcollava, visibilmente scosso.
Raggiunsero un edificio abbandonato. Jack sfondò una porta laterale con un calcio deciso e li fece entrare. Il rumore del caos esterno si attenuò leggermente, lasciando solo i respiri affannati dei due.
«Che diavolo stavi pensando?» sbottò Jack, fissando suo figlio. «Ti avevo detto di non venire qui!»
Ethan scosse la testa, ancora tremante. «Non potevo restare a guardare. Papà, questa è la mia battaglia, non puoi—»
«La tua battaglia?» lo interruppe Jack. «Ti rendi conto che avresti potuto morire? La gente qui fuori non è interessata alla giustizia, vogliono solo distruggere tutto.»
Ethan lo fissò, la rabbia che si mescolava alla paura. «Non capisci niente, vero? Non tutti vogliono combattere come te. Alcuni di noi credono che si possa cambiare qualcosa.»
Jack si passò una mano sul viso, esausto. «Ora non è il momento per questa discussione. Dobbiamo uscire di qui vivi.»
Si sentì un rumore di passi pesanti. Qualcuno stava entrando nell’edificio. Jack si irrigidì, facendo cenno a Ethan di restare in silenzio. Era il momento di combattere di nuovo.
Capitolo 4 – Uscita di Sicurezza
Il rumore dei passi si avvicinava rapidamente, rimbombando tra le pareti scrostate dell’edificio abbandonato. Jack, senza fare rumore, spinse Ethan dietro una pila di detriti. I suoi occhi scandagliavano l’oscurità, mentre la mano destra scivolava verso il coltello che teneva sempre nascosto nel suo zaino. La pistola sarebbe stata troppo rumorosa; dovevano restare invisibili.
Tre figure apparvero nel corridoio. Indossavano giacche scure e maschere che coprivano i volti. Una di loro stringeva un tubo metallico, mentre le altre due sembravano disarmate, ma non meno pericolose. I loro movimenti erano cauti, i passi lenti, come predatori che fiutano una preda nascosta.
Jack fece un rapido segno a Ethan, indicandogli di non muoversi. Il ragazzo obbedì, anche se i suoi occhi erano dilatati dalla paura. Jack si spostò lateralmente, cercando un angolo migliore per attaccare. Ogni muscolo del suo corpo era teso, il suo addestramento militare riemergeva come un riflesso naturale.
Quando il primo uomo si avvicinò troppo, Jack colpì.
Con un movimento fluido, uscì dall’ombra e afferrò l’uomo per il colletto della giacca, tirandolo con forza verso il muro. Il suono sordo del cranio che colpiva la parete ruppe il silenzio. Prima che gli altri due potessero reagire, Jack si lanciò sul secondo aggressore, bloccandogli il braccio con il tubo metallico e torcendolo fino a farlo cadere con un urlo di dolore.
Il terzo uomo, più rapido, afferrò un coltello dalla cintura e si avventò su Jack. Ma l’ex marine si abbassò appena in tempo, spingendo il proprio avversario contro una pila di rottami. La lama cadde con un clangore metallico, e Jack lo colpì con un pugno preciso al diaframma, facendolo piegare in due.
Tutto era durato meno di trenta secondi. Jack si voltò verso Ethan. «Andiamo, ora.»
Uscirono dall’edificio attraverso una porta sul retro, trovandosi in un vicolo ancora immerso nella penombra. L’aria era pesante di fumo e gas lacrimogeni, e le urla della folla erano più lontane, ma ancora presenti. Jack si fermò un attimo, orientandosi. Dovevano lasciare la zona prima che arrivassero rinforzi, sia dalla polizia sia dai gruppi violenti.
«Papà, come hai fatto—?» iniziò Ethan, ma Jack lo zittì con un gesto.
«Non c’è tempo per parlare. Cammina. E resta vicino a me.»
Si muovevano velocemente, piegati in avanti per rimanere fuori dalla vista. I vicoli erano un labirinto di rifiuti, muri coperti di graffiti e finestre rotte. Ogni angolo poteva nascondere un nuovo pericolo, e Jack lo sapeva. I suoi occhi continuavano a scansionare l’ambiente, cercando una via d’uscita sicura.
Raggiunsero una strada più larga, dove alcuni manifestanti correvano inseguiti da un veicolo corazzato della polizia. Jack si appiattì contro un muro, tirando Ethan con sé. Guardò verso l’altro lato della strada: c’era una rete metallica che chiudeva l’ingresso a una vecchia stazione della metropolitana.
«Lì,» disse, indicando la recinzione. «Dobbiamo attraversare.»
Ethan guardò la strada con esitazione. «E se ci vedono?»
Jack lo fissò, gli occhi duri. «Se ci vedono, corri. Non fermarti, capito?»
Ethan annuì, e insieme si prepararono a scattare. Aspettarono il momento giusto, quando il veicolo della polizia si voltò per inseguire un altro gruppo, e si lanciarono.
La recinzione era arrugginita e piena di buchi. Jack la superò facilmente, aiutando Ethan a seguirlo. Entrarono nella vecchia stazione della metropolitana, che sembrava abbandonata da anni. L’aria era fredda e umida, e l’unico suono era il gocciolio dell’acqua che filtrava dal soffitto.
Jack accese una torcia, illuminando i vecchi binari pieni di rifiuti e graffiti. «Dovremmo essere al sicuro qui per un po’,» disse, più a sé stesso che a Ethan.
Si sedettero su una vecchia panchina arrugginita. Per un attimo, il silenzio tra loro fu quasi opprimente. Ethan finalmente parlò.
«Papà, perché sei venuto? Pensavo che non ti importasse.»
Jack lo fissò, il volto serio. «Come puoi pensarlo? Sei mio figlio. Anche se litighiamo, non lascerò mai che ti succeda qualcosa.»
Ethan abbassò lo sguardo. «Non volevo metterti in pericolo. Credevo di poter fare la differenza… ma ora capisco che è tutto fuori controllo.»
Jack annuì lentamente. «A volte il mondo è troppo grande e caotico per cambiarlo da soli. Ma non significa che non dobbiamo provarci. Solo… fallo in modo intelligente, senza rischiare la tua vita inutilmente.»
Un rumore improvviso li interruppe. Passi. Qualcuno stava scendendo le scale della stazione.
Jack si alzò di scatto, mettendosi davanti a Ethan. La torcia illuminò la figura di un uomo, con un’arma in mano. Non era della polizia.
«Bene,» disse lo sconosciuto, con un sorriso freddo. «Sembra che abbia trovato qualcosa di interessante.»
Capitolo 5 – Ombre nel Buio
Jack si irrigidì, mettendosi tra Ethan e lo sconosciuto. I suoi occhi analizzarono l’uomo in un istante: una corporatura media, abiti sporchi di fuliggine e un fucile d’assalto malconcio stretto tra le mani. Non era un poliziotto, né sembrava uno dei manifestanti. Forse un opportunista, qualcuno che aveva approfittato del caos per sciacallare o, peggio, per alimentare il disordine.
«Chi siete?» chiese l’uomo, avanzando lentamente. La sua voce era ruvida, quasi divertita. «Non sembrate tipi da manifestazione. Persi, eh?»
Jack non rispose subito, ma la sua mente lavorava veloce. Mostrare paura o esitazione sarebbe stato un errore. Fece un passo avanti, puntando la torcia verso il volto dell’uomo per accecarlo temporaneamente.
«Non ti riguarda,» disse Jack, con un tono gelido ma controllato. «Non vogliamo problemi. Lasciaci andare e non ci sarà bisogno di… complicazioni.»
L’uomo rise, un suono breve e sgradevole. «Complicazioni, dici? Ragazzo mio, le complicazioni sono tutto ciò che c’è in questa città. E se pensi di uscirne vivo senza pagare il prezzo, sei più stupido di quanto sembri.»
Jack si mosse appena, abbastanza da poter studiare il terreno attorno a loro. Alle spalle dello sconosciuto, intravide altre ombre: almeno due persone, forse complici. Erano nella stessa situazione di pericolo in cui si trovavano sopra, solo più isolati e senza vie di fuga immediate.
Ethan si avvicinò a Jack, la paura visibile nei suoi occhi. «Papà, cosa facciamo?» bisbigliò, cercando di mantenere la calma.
Jack non rispose subito, ma gli fece cenno di stare dietro di lui. «Che cosa vuoi?» chiese allo sconosciuto, continuando a puntargli la torcia addosso.
L’uomo alzò il fucile, non per sparare, ma per far capire che aveva il controllo della situazione. «Quello che voglio? È semplice. Voi due mi sembrate… utili. Magari avete qualcosa di valore. E se non ce l’avete, posso sempre trovare un altro uso per voi.»
Jack strinse i denti. Doveva agire, e presto. Lasciare che la situazione degenerasse significava esporre Ethan a un pericolo ancora più grande. Il problema non era solo lo sconosciuto davanti a lui, ma i due che si muovevano nell’ombra. Dovevano trovare un modo per uscire dalla stazione senza essere seguiti.
Jack sapeva che parlare era l’unico modo per guadagnare tempo. Alzò una mano, cercando di apparire più collaborativo. «Ascolta, non vogliamo metterti nei guai. Abbiamo solo bisogno di uscire di qui. Ti lasceremo qualsiasi cosa ti serva, ma non coinvolgere mio figlio.»
La menzione di Ethan fece sorridere lo sconosciuto. «Ah, è tuo figlio? Bene, allora… forse possiamo negoziare. Sai, i ragazzi giovani sono sempre utili per certe cose. Fanno quello che gli dici senza troppe domande.»
Il sangue di Jack si gelò. La calma che aveva cercato di mantenere fino a quel momento si incrinò. Ogni fibra del suo corpo gridava di agire, ma sapeva che un attacco diretto avrebbe potuto mettere Ethan ancora più a rischio. Doveva essere strategico.
I suoi occhi si posarono su un tubo di metallo arrugginito vicino ai binari. Non era un’arma perfetta, ma avrebbe fatto il suo lavoro. Fece un passo laterale, fingendo di allontanarsi per placare l’uomo. «Va bene,» disse lentamente. «Facciamo così. Prenditi quello che vuoi.»
Mentre parlava, le sue dita si chiusero lentamente attorno al tubo. L’uomo davanti a lui non si accorse di nulla, ma uno dei complici si avvicinò di più, armeggiando con un coltello.
Ethan, che non riusciva a staccare lo sguardo dalla lama, si mosse istintivamente verso Jack, attirando l’attenzione dello sconosciuto. «Fermo!» urlò l’uomo, puntando il fucile nella loro direzione.
Fu l’istante che Jack stava aspettando.
Con un movimento rapido e deciso, lanciò la torcia verso il volto dell’uomo, spegnendola per immergere tutto nell’oscurità. Poi colpì con il tubo, centrando il fucile e facendolo cadere a terra. Gli altri due uomini gridarono, ma Jack non perse tempo. Afferrò Ethan per il braccio e lo spinse verso i binari.
«Corri!» gridò, senza voltarsi.
La stazione era un labirinto buio, ma Jack conosceva abbastanza bene la disposizione tipica delle metropolitane per orientarsi. Scese sui binari, trascinando Ethan con sé. Dietro di loro, sentirono i passi degli uomini che li inseguivano, imprecando e urlando.
«Papà, ci stanno seguendo!» esclamò Ethan, il respiro spezzato dalla corsa.
Jack annuì, stringendo la mascella. «Lo so. Continua a correre. Non fermarti.»
I binari erano coperti di spazzatura e pozze d’acqua stagnante, ma Jack non rallentò. Raggiunsero una curva, dove un tunnel più stretto si diramava dal principale. Jack si infilò dentro senza esitazione, sapendo che lo spazio ridotto avrebbe rallentato i loro inseguitori.
Dopo qualche minuto, il rumore dei passi si affievolì, ma Jack non si fermò. Solo quando videro una luce fioca in lontananza rallentò il passo. Si trattava di un’uscita secondaria, probabilmente un vecchio passaggio di manutenzione.
«Là,» disse Jack, indicando la luce. «Siamo quasi fuori.»
Ethan annuì, troppo esausto per parlare. Quando finalmente raggiunsero l’uscita, una grata arrugginita bloccava il passaggio. Jack prese il tubo e, con uno sforzo enorme, la piegò quanto bastava per lasciar passare Ethan.
Una volta fuori, si ritrovarono in un cortile deserto, circondato da edifici fatiscenti. L’aria era ancora pesante, ma il caos sembrava lontano. Jack si lasciò cadere su un ginocchio, respirando a fondo.
«Papà…» iniziò Ethan, la voce tremante.
Jack lo guardò, poggiandogli una mano sulla spalla. «Sei al sicuro. Questo è tutto ciò che conta.»
Ma sapeva che non era finita. Non ancora.
Capitolo 6 – Una Breve Tregua
Jack si rialzò lentamente, controllando i dintorni. Le grida e il frastuono delle rivolte sembravano più lontani ora, come un’eco ovattata nel labirinto di edifici decadenti. Ma il suo istinto gli diceva che non potevano fermarsi. Il gruppo che li aveva attaccati poteva essere ancora sulle loro tracce, e il caos della città non lasciava margine per abbassare la guardia.
«Dobbiamo muoverci,» disse Jack, rivolgendosi a Ethan. La sua voce era bassa ma ferma, il tono di un uomo abituato a comandare. «Cerchiamo un posto sicuro dove riposare per un momento.»
Ethan annuì, il respiro ancora affannato. «Papà… pensi che torneranno?»
Jack lo guardò negli occhi, cercando di trasmettere una calma che non provava. «Non se ci muoviamo velocemente.»
Si inoltrarono nel dedalo di edifici, cercando un rifugio. Finalmente, trovarono un magazzino abbandonato. La porta principale era bloccata, ma Jack individuò una finestra rotta abbastanza larga da permettere loro di entrare. Sollevò Ethan con facilità, aiutandolo a scavalcare, poi si arrampicò dietro di lui.
All’interno, il magazzino era freddo e umido, ma sembrava sicuro. Le casse di legno impilate e le travi arrugginite offrivano una buona copertura in caso di necessità. Jack chiuse la torcia per risparmiare batteria, affidandosi alla luce fioca che filtrava attraverso le fessure delle pareti.
«Sediamoci qui per un attimo,» disse, indicando un angolo riparato. Mentre Ethan si accasciava su una cassa, Jack controllò rapidamente l’ambiente. Solo quando fu certo che non c’erano altri ingressi aperti, si rilassò leggermente.
«Papà…» Ethan iniziò a parlare, la voce incerta. «Quella gente… erano qui per rapinarci, vero?»
Jack lo guardò, il volto serio. «Probabile. Ma non importa chi erano o cosa volevano. Importa solo che ora siamo vivi.»
Ethan scosse la testa, abbassando lo sguardo. «Non riesco a crederci. Pensavo di fare qualcosa di buono venendo qui. Credevo che partecipare a una protesta avrebbe significato cambiare qualcosa. Ma… ho solo peggiorato tutto.»
Jack si accovacciò accanto a lui, poggiandogli una mano sulla spalla. «Ethan, non è sbagliato voler cambiare il mondo. Ma devi capire che non tutti hanno le tue stesse intenzioni. Alcuni vedono queste rivolte come un’opportunità per distruggere, non per costruire. Non è colpa tua.»
Il ragazzo lo guardò, con gli occhi lucidi. «Ma come fai a sapere sempre cosa fare? Io mi sento così… impotente.»
Jack sospirò, il peso del passato che sembrava premere su di lui. «Non è questione di sapere cosa fare. È questione di sopravvivere. L’ho imparato nel peggiore dei modi, in posti dove nessuno si preoccupava di cosa fosse giusto o sbagliato. Ma c’è una cosa che ho capito: se proteggi le persone che ami, hai già fatto la cosa giusta.»
Per un momento, il silenzio cadde su di loro. Era un silenzio pesante, ma carico di significato. Ethan sembrava assimilare quelle parole, mentre Jack osservava la porta con attenzione.
Improvvisamente, un rumore lontano li fece sobbalzare. Un passo, poi un altro. Qualcuno si stava avvicinando all’esterno del magazzino.
Jack fece cenno a Ethan di restare in silenzio e si mosse con cautela verso la finestra rotta. Si affacciò appena, controllando il perimetro. Due figure si aggiravano nel cortile esterno. Erano armate e sembravano cercare qualcosa. O qualcuno.
«Papà,» sussurrò Ethan, cercando di non farsi prendere dal panico. «Sono loro?»
Jack annuì, la mascella tesa. «Sì. E non se ne andranno finché non saranno sicuri che siamo fuori gioco.»
Prese il tubo che aveva usato prima e lo strinse forte. Doveva prendere una decisione. Rimanere lì significava rischiare di essere scoperti. Uscire, invece, avrebbe richiesto di affrontarli direttamente.
«Ascolta,» disse, guardando Ethan con intensità. «Devi fidarti di me. Non fare rumore e non muoverti, qualunque cosa succeda. Capito?»
Ethan lo fissò, la paura evidente. «E tu cosa farai?»
Jack gli diede una rapida pacca sulla spalla. «Farò quello che devo. Ritorno subito.»
Jack si mosse silenziosamente verso un’uscita laterale del magazzino, mantenendo il tubo saldo nella mano. Quando uscì, il freddo della notte lo colpì, ma ignorò la sensazione. Si nascose dietro un cumulo di detriti, osservando i due uomini. Parlottavano tra loro, ma la distanza impediva di capire cosa dicevano.
Poi uno di loro si girò nella sua direzione, come se avesse percepito qualcosa. Jack rimase immobile, il respiro lento e controllato. Aspettò che l’uomo si avvicinasse abbastanza, poi scattò.
Il tubo colpì con precisione, stordendo il primo uomo. Il secondo si voltò, gridando, ma Jack gli fu addosso prima che potesse reagire. Una lotta breve e violenta seguì, con Jack che usò ogni grammo della sua esperienza per sopraffare il nemico. Quando l’uomo crollò a terra, Jack si fermò, respirando a fatica.
Tornò velocemente dentro il magazzino, dove Ethan lo aspettava, visibilmente agitato. «Sono fuori gioco,» disse Jack, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Ma dobbiamo andarcene. Ora.»
Ethan annuì senza discutere, e insieme si rimisero in marcia. La città era ancora in fiamme, ma Jack sapeva che ogni passo li portava più vicini alla salvezza. Non sarebbe stato facile, ma finché erano insieme, c’era una possibilità.
Capitolo 7 – Attraverso il Labirinto
Jack e Ethan si muovevano silenziosi tra le ombre. La città, solitamente vibrante di vita, ora sembrava un deserto ostile, animato solo dal fragore delle rivolte in lontananza e dalle sirene che ululavano senza sosta. Ogni passo era una sfida: vicoli bui, strade devastate e blocchi della polizia rendevano ogni via di fuga incerta.
Jack sapeva che restare in movimento era essenziale. Fermarsi troppo a lungo significava rischiare di essere trovati, sia dagli inseguitori che dal caos in generale. La loro unica possibilità era raggiungere un’area relativamente sicura. Ma dove?
«Papà, dove stiamo andando?» chiese Ethan, la voce tesa ma controllata. Non era più il ragazzo spavaldo che si era tuffato nella protesta pensando di cambiare il mondo. Ora capiva la gravità della situazione.
Jack indicò avanti. «C’è un vecchio ponte pedonale che attraversa i binari della ferrovia. Se riusciamo ad arrivare lì, possiamo uscire dalla zona rossa e trovare un rifugio sicuro. Ma dobbiamo muoverci.»
«E se il ponte è bloccato?» domandò Ethan, cercando di non sembrare spaventato.
Jack lo guardò brevemente. «Allora troveremo un altro modo. Non c’è altra scelta.»
Raggiunsero un altro vicolo, questo più ampio e meno caotico. Il suono dei loro passi si mescolava al crepitio distante delle fiamme e al rumore di vetri infranti. Jack si fermò improvvisamente, alzando una mano per segnalare a Ethan di fermarsi.
Davanti a loro, a metà del vicolo, c’erano due veicoli ribaltati che bloccavano il passaggio. Oltre le carcasse annerite, si sentivano voci concitate. Jack si abbassò, tirando Ethan con sé dietro un cumulo di macerie.
Sbirciando oltre, vide un gruppo di persone armate. Non erano poliziotti, ma neanche semplici manifestanti. Sembravano organizzati: alcuni sorvegliavano il vicolo, mentre altri si muovevano in cerchio, controllando i dintorni.
«Mercenari,» mormorò Jack tra sé. Non erano lì per caso. Probabilmente sfruttavano il caos per prendere il controllo della zona o per derubare chiunque avesse la sfortuna di capitare sulla loro strada.
Ethan si avvicinò a Jack, il viso pallido. «Che facciamo?»
Jack si prese un momento per pensare. Combattere era un’opzione suicida; erano in inferiorità numerica e armati solo di un tubo e un coltello. Dovevano aggirarli. «C’è un’altra via,» disse sottovoce. «Torniamo indietro e prendiamo la strada laterale. Sarà più lunga, ma potremmo evitarli.»
Ethan annuì, seguendo il padre mentre si ritiravano silenziosamente.
La strada laterale era più stretta, quasi un cunicolo tra due edifici fatiscenti. Il soffitto era coperto da tubi e fili elettrici penzolanti, e l’odore di muffa e spazzatura rendeva difficile respirare. Ma almeno era vuota.
«Quanto manca al ponte?» chiese Ethan, cercando di spezzare il silenzio opprimente.
Jack controllò la mappa mentale che si era fatto della zona. «Un paio di isolati. Se non ci sono altri problemi, dovremmo farcela in dieci minuti.»
Ma sapeva che era un grosso “se”. Il caos li circondava, e ogni strada poteva nascondere un pericolo.
Raggiunsero finalmente una strada principale. Era devastata: auto bruciate, negozi saccheggiati e detriti ovunque. Ma era stranamente vuota. Troppo vuota. Jack si fermò di nuovo, scrutando l’ambiente.
«C’è qualcosa che non va,» disse, il tono basso.
«Che intendi?» chiese Ethan, seguendo il suo sguardo.
«Quando una zona così è vuota, di solito significa che c’è qualcosa o qualcuno che tiene lontana la gente.»
E proprio in quel momento, un suono ruppe il silenzio. Un rombo sordo, seguito dal rumore di motori in avvicinamento. Jack afferrò Ethan e lo trascinò dietro un cassonetto.
Un gruppo di motociclisti sfrecciò lungo la strada, urlando e sparando in aria. Indossavano giubbotti di pelle e maschere che coprivano i volti, e sembravano più interessati a seminare panico che a cercare prede specifiche. Jack li osservò attentamente mentre passavano, contando almeno sei moto.
Quando il rumore si attenuò, si girò verso Ethan. «Dobbiamo muoverci. Ora.»
Finalmente, dopo aver attraversato un’altra serie di vicoli e strade secondarie, arrivarono al ponte pedonale. Era una struttura semplice, in metallo arrugginito, che si estendeva sopra i binari della ferrovia. Oltre il ponte, si intravedeva una zona meno devastata: il quartiere residenziale che Jack sperava fosse ancora relativamente tranquillo.
Ma c’era un problema.
Una barricata improvvisata bloccava l’ingresso al ponte. C’erano segni di lotta: sangue secco sul metallo, zaini abbandonati e resti di cartelli di protesta. Non c’erano persone visibili, ma l’area emanava una tensione palpabile.
Jack si avvicinò cautamente, scavalcando la barricata con Ethan dietro di lui. «Stai attento,» disse, guardandosi attorno. «Potrebbero esserci trappole.»
Attraversarono il ponte lentamente, i passi che risuonavano sul metallo. Ogni scricchiolio sembrava amplificato, un richiamo per chiunque fosse nascosto nei paraggi. Ethan continuava a guardarsi intorno, il volto rigido.
Quando raggiunsero l’altro lato, Jack tirò un sospiro di sollievo. Sembrava che fossero riusciti ad attraversare senza problemi.
Ma non avevano fatto i conti con gli occhi che li osservavano.
Non appena misero piede dall’altra parte del ponte, tre uomini sbucarono dall’ombra. Erano armati e sembravano pronti a tutto.
«Dove pensate di andare?» disse uno di loro, un uomo massiccio con un fucile appoggiato sulla spalla. «Questa è la nostra zona.»
Jack si mise subito davanti a Ethan, stringendo il tubo metallico che aveva portato con sé. «Non cerchiamo guai. Lasciateci passare e non ci saranno problemi.»
Gli uomini risero. «Non funziona così, amico,» disse uno di loro. «Se vuoi passare, devi pagare.»
Jack sapeva che non avrebbero lasciato andare lui ed Ethan senza una lotta. E questa volta, la via d’uscita sembrava davvero stretta.
Capitolo 8 – La Mano Invisibile
Jack studiava rapidamente i tre uomini, cercando un punto debole, una via d’uscita, qualsiasi cosa. Ma la situazione sembrava senza speranza. I loro occhi erano freddi, avidi, e le armi che portavano non lasciavano spazio a dubbi: erano pronti a uccidere per proteggere il loro territorio.
«Ascoltatemi,» disse Jack, mantenendo la voce calma ma ferma. «Non abbiamo niente che possa interessarvi. Lasciateci andare e non ci saranno problemi. Non volete perdere tempo con noi.»
Uno degli uomini, probabilmente il leader, sorrise con disprezzo. «Ah sì? E perché dovremmo crederti? Non sembri uno che implora per salvarsi la pelle.»
Il fucile si spostò leggermente nella sua direzione. Jack si preparò a scattare, anche se sapeva che le sue possibilità di sopravvivenza erano ridotte al minimo. Poi accadde.
Un sibilo acuto squarciò l’aria, seguito da un urlo soffocato. Uno degli uomini crollò a terra, colpito da qualcosa. I restanti due si voltarono di scatto, cercando la fonte del colpo. Un altro sibilo, e il secondo uomo crollò senza nemmeno riuscire a reagire. Il leader alzò il fucile, ma non fece in tempo a premere il grilletto: una figura uscì dall’ombra e lo colpì alla testa con precisione chirurgica. L’uomo cadde come un sacco vuoto.
Jack rimase immobile, proteggendo Ethan dietro di sé, mentre la figura misteriosa avanzava lentamente. Era un uomo, vestito di nero, con un passamontagna che copriva il volto. Si muoveva con la grazia e la sicurezza di un professionista, come se la violenza fosse per lui una seconda natura.
L’uomo si fermò a qualche passo da Jack, abbassando lentamente l’arma – una balestra compatta. «State bene?» chiese, la voce bassa ma priva di ostilità.
Jack non abbassò la guardia. «Chi sei?»
L’uomo si tolse il passamontagna, rivelando un viso segnato dal tempo e dalla fatica. «Mi chiamo Cole,» disse. «Sono uno… specialista. Stavo seguendo quei tre da un po’. Sembrava che fossero pronti a fare un’altra vittima. Non potevo lasciarli fare.»
Jack lo fissò, ancora sospettoso. «Perché aiutarci?»
Cole fece spallucce. «Non mi piace vedere la gente indifesa sopraffatta da sciacalli come questi. E poi… sembri sapere come badare a te stesso. Pensavo di darti una mano. Non capita spesso di vedere qualcuno con ancora un po’ di buon senso da queste parti.»
Ethan si fece avanti, ancora scosso. «Grazie,» disse, con un filo di voce. «Ci hai salvato.»
Cole annuì. «Non c’è di che, ragazzo. Ma voi due non siete fuori pericolo. Questa città sta andando in pezzi, e più vi avvicinate al centro, più la situazione peggiora. Dove state andando?»
Jack esitò. Non voleva rivelare troppo, ma sapeva che Cole aveva appena rischiato la vita per loro. «Stiamo cercando di uscire dalla zona rossa. Ci serve un posto sicuro.»
Cole annuì lentamente. «Allora avete ancora un bel pezzo da fare. Ma forse posso aiutarvi. Conosco una strada che vi porterà fuori dalla città senza passare per le aree più pericolose. Ci vorrà un po’, ma è più sicura di qualsiasi altra.»
Jack lo scrutò attentamente. «Perché farlo? Non ci conosci nemmeno.»
Cole sorrise debolmente. «Forse perché, nonostante tutto quello che sta succedendo, non ho perso del tutto la fede nelle persone. E forse perché non voglio essere l’unico sopravvissuto in questo inferno.»
Jack annuì. Sapeva che non avevano altra scelta che fidarsi. «Va bene. Guida tu.»
Cole li condusse attraverso un percorso che sembrava improbabile: cunicoli abbandonati, vecchie fogne e sottopassaggi dimenticati. Il silenzio era opprimente, interrotto solo dai suoni metallici dei loro passi. Ma ogni metro che percorrevano sembrava portarli più lontano dal caos.
«Chi sei davvero?» chiese Jack mentre attraversavano una vecchia stazione di servizio abbandonata. «Non sembri uno qualsiasi.»
Cole sorrise senza voltarsi. «Sono stato molte cose. Soldato, mercenario, cacciatore di taglie. Ora… diciamo che cerco di compensare il passato aiutando chi posso.»
Ethan lo guardò con curiosità. «Perché non lasci la città?»
Cole si fermò un momento, come se la domanda lo avesse colpito. «Perché questa è casa mia,» rispose infine. «E perché, nonostante tutto, credo che ci sia ancora qualcosa qui che vale la pena salvare.»
Jack lo osservò attentamente, cercando di capire se poteva davvero fidarsi di lui. Ma Cole sembrava sincero, e in quel momento, era tutto ciò di cui avevano bisogno.
Dopo ore di cammino, finalmente raggiunsero un’uscita: un vecchio tunnel che conduceva fuori dalla città. Cole indicò una scalinata arrugginita che portava in superficie. «Lì sopra siete fuori dalla zona rossa. Da qui in poi, è tutto nelle vostre mani.»
Jack si girò verso di lui. «Non vieni con noi?»
Cole scosse la testa. «No. Ho altre persone da aiutare. Ma voi due… ce la farete.»
Ethan si avvicinò, stringendogli la mano. «Grazie. Non dimenticheremo quello che hai fatto.»
Cole sorrise. «Fate attenzione. E ricordate: non tutti sono nemici. A volte, trovare un alleato può fare la differenza tra vivere e morire.»
Mentre Jack ed Ethan salivano la scalinata, Cole scomparve nell’oscurità, come un fantasma. E quando emersero alla luce del giorno, la città sembrava ancora lontana dal tornare alla normalità. Ma almeno, per ora, erano vivi.
Capitolo 9 – Verso la Zona Sicura
La luce del sole, fioca e grigia, illuminava un paesaggio desolato. Jack ed Ethan emersero dal tunnel e si trovarono davanti a un’area industriale abbandonata: magazzini fatiscenti, ciminiere spente e strade deserte. Non c’era segno del caos che avevano lasciato dietro di loro, ma l’aria era pesante, carica di tensione.
Jack si fermò un attimo per orientarsi. Sapeva che erano fuori dalla zona rossa, ma la sicurezza era ancora lontana. «Dobbiamo trovare un rifugio temporaneo,» disse, guardando Ethan. «Un posto dove riposare e capire il prossimo passo.»
Ethan annuì, il viso stanco ma risoluto. «Dove andremo?»
Jack scrutò l’orizzonte. «C’è una vecchia base di rifornimento poco fuori città. Se è ancora intatta, potrebbe avere acqua, cibo e forse un mezzo per andarcene. Ma dobbiamo muoverci rapidamente. Non siamo ancora al sicuro.»
Si incamminarono lungo una strada costeggiata da edifici abbandonati, facendo attenzione a ogni angolo e ogni suono. Il silenzio era quasi surreale dopo le esplosioni e le urla a cui si erano abituati. Ethan si guardava continuamente intorno, nervoso.
«Papà, pensi che qualcuno ci stia seguendo?» chiese, la voce bassa.
Jack strinse la mascella. «Non possiamo escluderlo. Ma non ci fermeremo a scoprirlo.»
A metà strada, passarono accanto a un grande magazzino con le porte spalancate. All’interno, c’erano resti di scatoloni e materiali rotti, ma sembrava vuoto. Jack si fermò, scrutando l’interno. «Aspetta qui un secondo.»
Ethan fece per protestare, ma Jack lo bloccò con uno sguardo deciso. Entrò nel magazzino con il tubo di metallo stretto nella mano, avanzando lentamente. Era abituato a luoghi come quello: spazi chiusi, potenzialmente pericolosi. Ogni passo era calcolato, ogni movimento silenzioso.
Non trovò nulla di minaccioso, solo un vecchio ufficio con alcune sedie rovesciate e una piccola scorta di bottiglie d’acqua ancora sigillate. Quando tornò da Ethan, gli mostrò la scoperta. «Non molto, ma meglio di niente.»
Si sedettero brevemente per riposare e bere. Ethan guardò suo padre, rompendo il silenzio. «Non pensavo che le cose potessero diventare così… selvagge. La città era viva, piena di gente. Ora sembra morta.»
Jack lo fissò per un momento, poi parlò con calma. «La civiltà è fragile, Ethan. Un solo evento può farla crollare, trasformare le persone in ciò che abbiamo visto. È per questo che devi sempre essere pronto. Non puoi aspettarti che il mondo sia giusto.»
Ethan annuì lentamente, riflettendo sulle parole del padre.
Dopo aver ripreso fiato, continuarono il loro cammino verso la base di rifornimento. Il sole iniziava a calare, tingendo il cielo di un rosso cupo. Jack aumentò il passo. Muoversi di notte era troppo rischioso.
Finalmente, dopo un’altra ora di cammino, avvistarono la base: una piccola struttura recintata con una torre di guardia arrugginita e un deposito di carburante al centro. Sembrava abbandonata, ma Jack sapeva che le apparenze potevano ingannare.
Si avvicinò con cautela, controllando il perimetro. Non c’era nessun movimento visibile, ma trovò tracce recenti di pneumatici vicino all’ingresso principale. «Qualcuno è stato qui di recente,» mormorò.
Ethan si avvicinò, il volto preoccupato. «Pensi che sia sicuro entrare?»
Jack valutò la situazione. Non avevano altra scelta. «Se c’è qualcuno dentro, lo scopriremo presto.»
Aprirono lentamente un cancello laterale e si inoltrarono nel cortile. La base sembrava in rovina: container arrugginiti, detriti sparsi ovunque e porte semiaperte. Ma era tranquilla, quasi troppo.
Entrarono nell’edificio principale, una sorta di hangar. All’interno trovarono ciò che restava di una stazione di rifornimento: taniche di benzina, strumenti sparsi e alcune casse che sembravano intatte.
Jack aprì una delle casse e trovò alcune razioni militari. Non erano molte, ma erano ancora commestibili. «Questo ci aiuterà a tirare avanti per un po’,» disse, passando una confezione a Ethan.
Mentre mangiavano in silenzio, un rumore improvviso li fece sobbalzare. Proveniva dall’esterno, un suono metallico, come se qualcuno avesse urtato una lamiera.
Jack si alzò di scatto, afferrando il tubo. «Resta qui,» disse a Ethan, avanzando verso l’ingresso.
Quando uscì, vide una figura avvicinarsi lentamente al cancello principale. Era un uomo, alto e magro, con una pistola nella mano destra e uno zaino sulla spalla. Non sembrava ostile, ma Jack non abbassò la guardia.
«Chi sei?» chiese, puntando il tubo verso l’uomo.
L’uomo si fermò, alzando le mani in segno di pace. «Amico, non voglio guai. Mi chiamo Marcus. Sto cercando un posto sicuro, proprio come voi.»
Jack lo osservò attentamente. Non sembrava una minaccia immediata, ma non poteva fidarsi alla cieca. «Sei armato.»
Marcus annuì. «Sì, ma non l’ho mai usata. È solo per spaventare eventuali predatori. Non sono qui per combattere.»
Jack lo studiò per un momento, poi fece un cenno verso il cancello. «Entra. Ma se fai qualcosa di sospetto, non esiterò.»
Marcus entrò e si sedette a qualche metro di distanza da Ethan. «Grazie,» disse, aprendo lo zaino e tirando fuori alcune lattine di cibo. «Possiamo dividere questo. È tutto quello che ho.»
Ethan guardò Jack, incerto. Jack annuì. «Per ora sembri sincero. Ma se menti, finirà male per te.»
Marcus sorrise debolmente. «Non sono un bugiardo. Voglio solo sopravvivere.»
Mentre mangiavano insieme, Marcus raccontò la sua storia. Era un ex camionista rimasto bloccato in città quando le proteste erano iniziate. Aveva cercato di uscire, ma ogni strada sembrava più pericolosa dell’altra.
«Questa base è una buona scoperta,» disse. «Ma non sarà sicura a lungo. I saccheggiatori troveranno questo posto presto o tardi.»
Jack annuì. Sapeva che Marcus aveva ragione. Questo era solo un rifugio temporaneo. Dovevano trovare un modo per lasciare la città, e presto.
Capitolo 10 – Un Piano per Fuggire
Jack si alzò in piedi, fissando Marcus e poi Ethan. «Questa base non ci terrà al sicuro a lungo. Dobbiamo trovare un modo per uscire dalla città prima che la situazione peggiori. Marcus, hai detto che conosci le strade. Hai idea di un percorso sicuro?»
Marcus si grattò il mento, riflettendo. «C’è una strada vecchia che porta fuori città. È poco utilizzata, passa attraverso una zona industriale e poi in aperta campagna. Ma il problema è che è lunga, e senza un veicolo, non ce la faremo. A piedi, saremmo bersagli facili.»
Jack annuì. «Allora troviamo un veicolo.»
Si alzò e cominciò a esplorare il resto della base, accompagnato da Ethan. Marcus rimase indietro, ma non sembrava intenzionato a creare problemi. Jack era consapevole che fidarsi di uno sconosciuto era un rischio, ma al momento avevano bisogno di tutte le risorse possibili.
Dopo qualche minuto di ricerca, Jack trovò quello che cercava: un vecchio camioncino parcheggiato in un angolo dell’hangar. Era impolverato e chiaramente fuori uso da tempo, ma sembrava in buone condizioni strutturali. Aprì il cofano, controllando il motore. «La batteria è morta, ma potrebbe funzionare se troviamo una sostituta.»
Ethan si avvicinò, curioso. «Pensi che possiamo farlo ripartire?»
Jack annuì. «Se troviamo una batteria e del carburante, sì. Dobbiamo muoverci, però.»
Marcus si unì a loro poco dopo. «C’è un deposito di veicoli abbandonato a circa un chilometro da qui,» disse. «Potremmo trovare una batteria lì, forse anche qualche tanica di benzina.»
Jack lo fissò, valutando la proposta. «D’accordo. Ma ci muoviamo insieme. Non lasciamo nessuno indietro.»
Si misero in marcia verso il deposito, avanzando con cautela tra le strade deserte. Il tramonto colorava il cielo di arancione e rosso, creando un’atmosfera irreale. Ogni ombra sembrava una potenziale minaccia, ma il gruppo si muoveva silenziosamente, con Jack che guidava il percorso.
Quando raggiunsero il deposito, trovarono una vasta area piena di veicoli abbandonati. Era il luogo perfetto per cercare una batteria, ma anche un potenziale punto di pericolo. Jack sollevò una mano, segnalando al gruppo di fermarsi.
«Dividiamoci,» disse. «Io ed Ethan controlleremo a destra. Marcus, prendi il lato sinistro. Se trovi qualcosa, avvisa subito, ma non fare rumore.»
Marcus annuì e si allontanò, mentre Jack ed Ethan si inoltravano tra i veicoli arrugginiti. Trovarono un furgone con la batteria ancora intatta. Jack usò un vecchio attrezzo trovato sul posto per rimuoverla, ma un rumore improvviso li fece gelare.
Qualcosa si muoveva nel deposito.
Jack si girò, afferrando il tubo di metallo che portava sempre con sé. «Ethan, stai dietro di me,» sussurrò.
Un gruppo di uomini armati uscì da dietro i veicoli, sei in totale. Erano chiaramente saccheggiatori, vestiti di stracci e armati di fucili e coltelli. Uno di loro, probabilmente il leader, si fermò a qualche metro da Jack.
«Bene, bene,» disse con un sorriso maligno. «Abbiamo visitatori. E sembra che abbiano trovato qualcosa di interessante.»
Jack mantenne la calma, stringendo la batteria in una mano e il tubo nell’altra. «Non cerchiamo guai,» disse. «Vogliamo solo questa batteria. Prendiamo ciò che ci serve e ce ne andiamo.»
Il leader rise, guardando i suoi uomini. «Oh, certo. Ma vedi, questo è il nostro territorio. E se vuoi qualcosa da qui, devi pagare.»
Jack notò Marcus apparire dietro i saccheggiatori, muovendosi silenziosamente. Lo guardò di sfuggita, cercando di capire il suo piano. Marcus aveva un coltello in mano, ma non fece alcun segno di voler attaccare.
Ethan si mosse leggermente dietro Jack, cercando di non attirare l’attenzione. «Papà, cosa facciamo?» bisbigliò.
Jack rispose con calma. «Segui il mio segnale.»
Quando il leader dei saccheggiatori fece un passo avanti, Marcus colpì. Il coltello si infilò silenziosamente nella schiena di uno degli uomini, che crollò senza un suono. Gli altri si voltarono, confusi, e Jack colse l’occasione per attaccare. Con un movimento rapido, colpì il leader con il tubo, mandandolo al tappeto.
La lotta fu breve ma violenta. Marcus si lanciò su un secondo saccheggiatore, mentre Jack affrontava altri due. Ethan, nonostante la paura, si avvicinò per aiutare il padre, raccogliendo un pezzo di metallo per difendersi.
Quando l’ultimo uomo cadde, il deposito tornò silenzioso. Jack respirava a fatica, guardando i corpi a terra. «Prendiamo ciò che ci serve e andiamocene,» disse.
Marcus annuì, con una ferita superficiale al braccio. «Sono d’accordo. Questo posto non è sicuro.»
Con la batteria e una tanica di carburante recuperata dai veicoli, tornarono rapidamente alla base. Jack installò la batteria nel camioncino, controllando ogni dettaglio. Dopo alcuni tentativi, il motore si accese con un rombo soffocato. «Funziona,» disse con un leggero sorriso.
Ethan esultò, ma Jack rimase serio. «Non siamo ancora fuori pericolo. Dobbiamo partire subito.»
Salirono a bordo, con Marcus al posto del passeggero e Ethan dietro. Jack guidò attraverso le strade deserte, dirigendosi verso la vecchia strada che Marcus aveva indicato. Ogni chilometro li avvicinava alla libertà, ma il pericolo era sempre in agguato.
Mentre il camioncino si allontanava dalla città, il silenzio fu interrotto solo dalla voce di Ethan. «Papà… pensi che troveremo un posto sicuro?»
Jack lo guardò nello specchietto retrovisore. «Lo troveremo, Ethan. Non importa quanto ci vorrà.»
La strada si stendeva davanti a loro, lunga e incerta, ma piena di speranza.
Capitolo 11 – La Comunità Perduta
Il camioncino avanzava lentamente sulla strada dissestata. Le luci deboli illuminavano la campagna deserta, un paesaggio silenzioso e inquietante. Jack era concentrato sulla guida, ma i suoi occhi non smettevano di scrutare l’orizzonte. Ogni chilometro li allontanava dalla città, ma non dalla tensione. Il caos urbano era stato lasciato indietro, ma il pericolo poteva nascondersi ovunque.
Ethan, seduto dietro, osservava il paesaggio passare, la mente affollata di domande. Marcus, invece, era insolitamente silenzioso, fissando l’oscurità oltre il parabrezza. Finalmente, fu Ethan a rompere il silenzio.
«Dove stiamo andando, esattamente?» chiese.
Jack rispose senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Cerchiamo un rifugio. Una fattoria, un edificio abbandonato, qualsiasi cosa dove possiamo stabilirci per un po’ e recuperare forze.»
Marcus annuì. «Ci sono piccoli insediamenti sparsi qui intorno. Gente che ha scelto di isolarsi per evitare il caos. Alcuni sono accoglienti. Altri… meno.»
Jack sollevò un sopracciglio. «Li conosci?»
Marcus scrollò le spalle. «Ne ho sentito parlare. Quando il mondo crolla, la gente reagisce in modi diversi. Alcuni cercano di ricostruire. Altri… difendono il poco che hanno come se fosse oro.»
Dopo un’altra ora di viaggio, Jack notò qualcosa in lontananza. Una luce fioca, quasi impercettibile, proveniva da una collina. Era troppo debole per essere un faro o un’installazione elettrica, ma era chiaramente artificiale.
«C’è qualcosa lassù,» disse Jack, rallentando il veicolo.
Ethan si sporse per guardare. «Forse è una casa. O qualcuno con un rifugio.»
Marcus sembrava meno convinto. «Potrebbe essere una trappola. O peggio, un avamposto di saccheggiatori.»
Jack spense i fari e fermò il camioncino a una distanza di sicurezza. «Non possiamo ignorarlo. Se c’è qualcuno lassù, potrebbe aiutarci. Ma non entreremo a occhi chiusi.»
Scese dal veicolo, indicando a Ethan di rimanere indietro. «Marcus, vieni con me. Ethan, tieni il motore pronto. Se qualcosa va storto, non aspettare: vai.»
Ethan annuì, anche se il pensiero di rimanere solo lo spaventava. «Stai attento, papà.»
Jack e Marcus si avviarono verso la collina, muovendosi con cautela. Il silenzio era rotto solo dal fruscio dell’erba sotto i loro piedi. Man mano che si avvicinavano, la luce diventava più chiara: proveniva da una lanterna appesa all’ingresso di una grande struttura. Sembrava una fattoria, con un grande granaio e alcune case più piccole intorno.
Quando arrivarono al cancello, videro un cartello dipinto a mano: “Benvenuti. Ma lasciate le armi fuori.”
Jack e Marcus si scambiarono uno sguardo. «Amichevoli, o cercano di farlo sembrare così,» disse Marcus.
Jack annuì. «Entriamo lentamente. Non facciamo nulla che possa sembrare una minaccia.»
Aprirono il cancello e avanzarono verso la casa principale. Prima che potessero bussare, la porta si aprì. Un uomo sulla cinquantina, con una barba folta e uno sguardo stanco ma vigile, li osservava. Aveva un fucile appoggiato al muro dietro di sé, ma le sue mani erano vuote.
«Chi siete?» chiese, la voce ferma.
Jack alzò le mani, mostrando che non era armato. «Mi chiamo Jack. Questo è Marcus. Stiamo cercando un posto sicuro, solo per una notte. Abbiamo un ragazzo con noi, mio figlio.»
L’uomo li scrutò per un momento, poi fece un cenno. «Entrate.»
All’interno, la casa era semplice ma accogliente. Una donna e due adolescenti stavano seduti attorno a un tavolo, guardando i nuovi arrivati con una combinazione di curiosità e apprensione. L’uomo si presentò. «Io sono Tom. Lei è mia moglie, Sarah. E questi sono i nostri figli, Luke e Emily.»
Jack annuì, presentandosi brevemente e spiegando la situazione. Tom ascoltò in silenzio, poi parlò. «Potete restare per la notte. Ma domani dovrete andare. Non possiamo permetterci di ospitare estranei troppo a lungo.»
Jack accettò, grato per la possibilità di riposare. «Grazie. Non cerchiamo problemi.»
Sarah preparò un pasto semplice, e per la prima volta da giorni, Ethan si rilassò. Guardava i due ragazzi, Luke ed Emily, come se fossero un promemoria di una vita normale che sembrava ormai lontana.
Marcus, invece, restava in disparte, osservando attentamente la famiglia e l’ambiente circostante. Jack sapeva che non era paranoia: era prudenza.
Più tardi, mentre tutti erano riuniti attorno al fuoco, Jack chiese a Tom del luogo. «Sembra tranquillo qui. Come fate a mantenerlo così?»
Tom sospirò. «Non è facile. Abbiamo un sistema di vigilanza. E cerchiamo di non attirare l’attenzione. Ma il pericolo è sempre vicino. Saccheggiatori, gruppi armati… a volte, dobbiamo combattere.»
Sarah lo interruppe. «Tom… forse dovremmo dirglielo.»
Jack si incuriosì. «Dirci cosa?»
Tom esitò, poi si alzò e aprì una porta sul retro. «Seguitemi.»
Li condusse a una stanza nascosta, piena di provviste, armi e mappe. Ma ciò che attirò l’attenzione di Jack fu una radio a onde corte al centro della stanza.
«Abbiamo contatti con una comunità più grande,» spiegò Tom. «Non è lontana da qui. È ben organizzata, con risorse e sicurezza. Stiamo valutando se unirci a loro.»
Jack si avvicinò alla radio. «Potete contattarli?»
Tom annuì. «Sì. Ma non è semplice. Sono diffidenti con gli estranei. E il viaggio fino a lì non è privo di rischi.»
Jack lo guardò. «Ci serve una destinazione. E se questa comunità è ciò che dite, voglio portarci mio figlio.»
Tom lo fissò per un lungo momento, poi annuì. «Domani, vi darò le coordinate. Ma dovrete muovervi in fretta. Qui non sarete al sicuro a lungo.»
Capitolo 12 – La Comunità
Il viaggio verso la comunità fu lungo e faticoso. Con le coordinate fornite da Tom, Jack guidò il camioncino attraverso strade deserte e terreni sconnessi. Ogni chilometro aumentava la tensione: il pericolo di incontrare saccheggiatori o bande armate era sempre presente, ma il pensiero di un rifugio sicuro li spingeva avanti.
Finalmente, dopo ore di viaggio, avvistarono la comunità. Era nascosta in una valle circondata da colline e fitta vegetazione. Dall’alto, sembrava una piccola città fortificata, con alte barriere di metallo e legno che proteggevano il perimetro. Guardie armate pattugliavano le torri di osservazione, e un grande cancello bloccava l’ingresso principale.
Ethan guardò fuori dal finestrino, colpito. «Sembra… imponente.»
Marcus, seduto accanto a Jack, annuì lentamente. «Hanno fatto un buon lavoro. Non sarà facile attaccarli.»
Jack fermò il camioncino a una distanza di sicurezza e scese, sollevando le mani per mostrare che non era una minaccia. Una delle guardie lo vide e sollevò un megafono.
«Chi siete e cosa volete?» chiese una voce autoritaria.
Jack avanzò lentamente. «Mi chiamo Jack Carter. Con me ci sono mio figlio e un alleato. Siamo in cerca di rifugio. Tom, dalla fattoria a nord, ci ha dato le vostre coordinate.»
Ci fu un momento di silenzio, poi un’altra guardia parlò attraverso un interfono. «Aspettate lì.»
Il cancello si aprì lentamente, rivelando un piccolo gruppo di persone armate che uscivano per incontrarli. Al centro c’era una donna sulla quarantina, vestita con abiti semplici ma puliti. Il suo volto era serio, ma non ostile.
«Io sono Helen,» disse, avvicinandosi. «Sono una delle responsabili della comunità. Tom ci ha avvisato del vostro arrivo. Ma non ospitiamo chiunque. Dovrete dimostrare di essere una risorsa, non un peso.»
Jack annuì. «Capisco. Non siamo qui per approfittare. Posso lavorare. So costruire, riparare, e sono addestrato a difendere. Mio figlio… imparerà.»
Helen lo fissò per un momento, poi guardò Marcus. «E lui?»
Marcus alzò le mani, come per dichiarare la sua neutralità. «Sono un vagabondo, ma so usare un’arma e seguire ordini. Se avete bisogno di qualcuno che pattugli o si occupi di situazioni pericolose, sono il vostro uomo.»
Helen scrutò i loro volti, poi fece cenno alle guardie. «Controllate il loro veicolo. Se non ci sono problemi, lasciateli entrare.»
Una volta superati i controlli, il camioncino entrò nel cuore della comunità. All’interno, la vista era sorprendente: file di tende e piccoli edifici costruiti con materiali di recupero, persone che si muovevano indaffarate tra orti, laboratori e aree di stoccaggio. C’era una sorta di ordine, quasi una parvenza di normalità.
Helen accompagnò Jack, Ethan e Marcus verso una struttura al centro della comunità. «Qui non tolleriamo conflitti interni,» spiegò. «Tutti contribuiscono. Cibo, acqua e sicurezza sono condivisi, ma chi non rispetta le regole viene allontanato.»
Jack osservò tutto attentamente. Era un sistema rigido, ma funzionava. Ethan camminava al suo fianco, guardando con curiosità le persone che li osservavano a loro volta. Alcuni volti erano diffidenti, altri semplicemente curiosi.
«Dove dormiremo?» chiese Ethan, abbassando la voce.
Helen indicò un gruppo di tende vicino alla recinzione esterna. «Per ora, lì. Quando avrete dimostrato il vostro valore, potrete ottenere un alloggio più sicuro.»
Dopo essersi sistemati, Helen li convocò per un incontro con il consiglio della comunità. Era un piccolo gruppo di persone, ognuna con un ruolo specifico: un medico, un ingegnere, e un ex ufficiale dell’esercito che si occupava della sicurezza. Jack capì subito che era un ambiente pragmatico: non c’era spazio per debolezze o indecisioni.
«Jack,» iniziò Helen, «abbiamo bisogno di sapere di più su di te. Sei stato addestrato a combattere, ma cos’altro sai fare?»
Jack rispose senza esitazione. «Ho esperienza come meccanico e ingegnere. Posso costruire, riparare, o migliorare le vostre difese.»
Il consiglio annuì, apparentemente soddisfatto. Poi si rivolsero a Marcus. «E tu?»
Marcus li guardò con un sorriso stanco. «Sono un tuttofare. Non mi tiro indietro davanti al lavoro sporco.»
Helen concluse l’incontro con un avvertimento. «Qui lavoriamo insieme. Se qualcuno crea problemi o mette a rischio la comunità, sarà espulso immediatamente.»
Mentre Jack e Marcus venivano assegnati ai loro primi compiti, Ethan si ritrovò con un gruppo di ragazzi della sua età. Luke ed Emily, i figli di Tom, erano già integrati nella comunità e gli presentarono altri giovani. Per la prima volta, Ethan sembrò rilassarsi, almeno un po’.
«È strano,» disse a Luke mentre camminavano tra gli orti. «Tutto qui sembra… funzionare. Come ci siete riusciti?»
Luke sorrise. «Non è facile. Abbiamo perso persone. Ci sono giorni in cui non siamo sicuri di avere abbastanza per tutti. Ma lavoriamo insieme. È l’unico modo.»
Ethan annuì, riflettendo su quelle parole. Forse, dopo tutto, c’era ancora speranza.
Quella notte, mentre la comunità si preparava a dormire, Jack stava lavorando su una riparazione alla recinzione esterna con Marcus. «Cosa ne pensi di questo posto?» chiese Jack.
Marcus sospirò. «È meglio di molti altri che ho visto. Ma nessun posto è veramente sicuro. Non illuderti.»
Proprio in quel momento, un colpo di arma da fuoco ruppe il silenzio. Tutti si fermarono, e un’allarme rudimentale cominciò a suonare. Helen apparve poco dopo, con una radio in mano.
«Abbiamo avvistato un gruppo di persone armate a nord,» disse, il volto teso. «Non sappiamo se sono solo di passaggio o se ci stanno puntando. Ma dobbiamo prepararci.»
Jack si voltò verso Marcus. «Eccoci di nuovo in gioco.»
Marcus sorrise amaramente. «Te l’avevo detto.»
Capitolo 13 – Lo Scontro Imminente
Il suono dell’allarme risuonava tra le mura della comunità, un richiamo urgente che mobilitava ogni abitante. Jack si trovò subito accanto a Helen, che dava ordini precisi alle guardie e agli abitanti. «Quanti sono?» chiese, mantenendo la calma nonostante l’adrenalina che gli scorreva nelle vene.
Helen rispose senza distogliere lo sguardo dalla mappa dispiegata su un tavolo improvvisato. «Una dozzina, forse di più. Sono armati, ma non sembrano organizzati. Probabilmente saccheggiatori.»
Marcus, accanto a Jack, studiava la situazione. «Non sottovalutarli. Anche un gruppo disorganizzato può fare molti danni se non siamo pronti.»
Helen annuì. «Abbiamo bisogno di ogni persona capace di combattere. Jack, Marcus, sapete usare armi da fuoco?»
Jack annuì. «Sì.»
Helen aprì una cassa di legno contenente fucili e munizioni. «Prendete quello che vi serve. I non combattenti si rifugeranno nell’edificio centrale. Le guardie saranno sulle torri, ma ci serve qualcuno a terra per proteggere il perimetro.»
Jack prese un fucile, controllandolo con destrezza. Poi si voltò verso Helen. «Ethan?»
Helen posò una mano sulla spalla di Jack. «Sarà al sicuro con gli altri. Assicuriamoci che resti così.»
Il cortile della comunità si trasformò rapidamente in un campo di battaglia in preparazione. Le barriere furono rinforzate con sacchi di sabbia, le torri di guardia rifornite di munizioni. Le guardie, sebbene disciplinate, mostravano segni di nervosismo. Non erano soldati, ma agricoltori e artigiani costretti a diventare guerrieri.
Jack, Marcus e un piccolo gruppo di combattenti si posizionarono vicino al cancello principale. Ogni rumore proveniente dal bosco circostante li faceva irrigidire. L’aria era tesa, carica di attesa.
«Questa non è la mia idea di pensionamento,» scherzò Marcus, controllando il caricatore del suo fucile.
Jack abbozzò un sorriso. «Non è nemmeno la mia.»
Un rumore improvviso tra gli alberi li fece voltare. Poi un colpo ruppe il silenzio, e una delle torri di guardia rispose al fuoco. Era iniziato.
Il primo assalto arrivò rapido e brutale. Una raffica di proiettili colpì il cancello, ma le barriere reggevano bene. Dai boschi emersero figure armate, sparando alla cieca mentre avanzavano. Helen, dalla torre centrale, urlava ordini. «Mirate basso! Non sprecate munizioni!»
Jack si sporse da dietro una copertura e fece fuoco, colpendo uno degli assalitori. Altri due avanzarono verso il cancello, ma furono abbattuti dalle guardie. L’attacco iniziale sembrava mal organizzato, ma la pressione era costante.
Ethan, nascosto nell’edificio centrale con gli altri civili, osservava la scena da una finestra. Vedere suo padre e Marcus combattere per proteggere la comunità gli fece stringere i pugni. «Non voglio stare qui senza fare niente,» mormorò a se stesso.
Nonostante la resistenza, uno degli assalitori riuscì a piazzare un piccolo ordigno esplosivo vicino a una sezione del muro. L’esplosione fece crollare parte della recinzione, aprendo una breccia. «Hanno sfondato a sud!» gridò una delle guardie.
Jack corse verso il punto colpito, seguito da Marcus e altri combattenti. Gli assalitori si riversarono attraverso l’apertura, ma furono accolti da una pioggia di proiettili. Jack si lanciò in uno scontro ravvicinato, abbattendo un uomo con un colpo preciso al petto. Marcus, con la sua esperienza, copriva il fianco, eliminando altri nemici.
Nonostante le perdite, gli assalitori sembravano non finire mai. Helen arrivò con rinforzi, sparando con precisione. «Non possiamo resistere a lungo così! Dobbiamo chiudere quella breccia!»
Jack si voltò verso Marcus. «Abbiamo qualcosa per bloccarla?»
Marcus indicò un trattore parcheggiato vicino. «Quello. Può funzionare.»
Mentre Jack e Marcus correvano verso il trattore, Ethan li vide dalla finestra. Nonostante le urla di Luke che cercava di fermarlo, Ethan uscì dall’edificio e si unì a loro. «Papà! Posso aiutare!»
Jack si fermò, il volto contratto dalla paura e dalla rabbia. «Ethan, torna indietro!»
«No! Posso guidare il trattore! Mi hai insegnato come fare, ricordi?»
Jack esitò per un istante, poi annuì. «D’accordo. Vai.»
Ethan salì sul trattore e lo mise in moto, guidandolo lentamente verso la breccia. Marcus e Jack lo coprirono, eliminando chiunque cercasse di avvicinarsi. Quando il trattore fu in posizione, bloccò efficacemente l’apertura, impedendo agli assalitori di entrare.
Con la breccia chiusa e le perdite crescenti, gli assalitori iniziarono a ritirarsi. Le guardie li inseguirono con il fuoco di copertura, assicurandosi che non tornassero indietro. Dopo pochi minuti, il silenzio tornò a regnare.
Helen scese dalla torre, visibilmente esausta. «Li abbiamo respinti. Per ora.»
Jack guardò il campo di battaglia. Il terreno era disseminato di corpi e detriti. Marcus si avvicinò, appoggiandosi al fucile. «Non è stato un attacco casuale. Ci stavano osservando. Sapevano dove colpire.»
Helen annuì. «Hai ragione. Dobbiamo rafforzare le difese. E presto.»
Ethan si avvicinò a Jack, il viso sporco di polvere ma determinato. «Papà, ce l’abbiamo fatta.»
Jack lo abbracciò, stringendolo forte. «Hai fatto bene, Ethan. Ma non voglio mai più vederti rischiare così. Capito?»
Ethan annuì, ma c’era un’ombra di orgoglio nei suoi occhi. «Capito.»
La comunità si riunì per riprendersi dalla battaglia. I feriti furono curati, le munizioni contate, e i piani per riparare il muro iniziarono immediatamente. Helen convocò Jack e Marcus per discutere delle prossime mosse.
«Non è finita,» disse Helen. «Questi erano solo una piccola banda. Se sanno che siamo qui, altri potrebbero seguirli.»
Jack annuì. «Dobbiamo prepararci. Ma questa comunità ha del potenziale. Non permetteremo che venga distrutta.»
Helen lo guardò, e per la prima volta, accennò un sorriso. «Allora resta con noi. Abbiamo bisogno di persone come te.»
Jack guardò Ethan, che parlava con i ragazzi della comunità, e poi Marcus, che si accendeva una sigaretta e osservava il cielo. «Resteremo. Per ora.»
Capitolo 14 – Ricostruzione
Il mattino successivo, la comunità era già in piena attività. Il cancello principale si apriva e chiudeva di continuo, mentre gruppi di persone portavano legno, metallo e qualsiasi materiale utile per riparare la breccia. Le torri di guardia erano ancora presidiate, ma il clima sembrava meno teso rispetto alla notte precedente.
Jack si unì subito ai lavori, supervisionando la riparazione delle difese. «Usate il metallo per rinforzare la base del muro,» disse a un gruppo di giovani uomini che trasportavano lamiere ondulate. «Sabbia e cemento per riempire i vuoti. Non lasciamo nulla al caso.»
Helen passò accanto a lui, osservando il progresso. «Sembri sapere il fatto tuo.»
Jack si fermò un attimo, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Ho passato anni a costruire cose, e altrettanti a distruggerle. So quanto sia importante fare un lavoro solido.»
Helen annuì. «Sei un buon leader, Jack. La comunità potrebbe beneficiare della tua esperienza.»
Jack si limitò a un cenno, tornando subito al lavoro. Non cercava riconoscimenti, solo risultati.
Nel frattempo, Ethan si era unito a un gruppo di giovani che coltivavano gli orti. Luke ed Emily lo avevano accolto come uno di loro, e per la prima volta da giorni, Ethan sembrava sereno.
«Quindi sai qualcosa di giardinaggio?» chiese Emily, ridendo mentre Ethan cercava di piantare una fila di carote in modo storto.
«Non molto,» rispose Ethan, sorridendo. «Ma sto imparando. E comunque, questo è meglio che restare chiuso in una stanza a nascondermi.»
Luke gli diede una pacca sulla spalla. «Qui tutti trovano qualcosa da fare. È l’unico modo per andare avanti.»
Ethan annuì, guardando le piante. «Forse questo posto può davvero funzionare.»
Marcus, invece, passava il suo tempo con le guardie, insegnando loro tattiche di pattugliamento e difesa. «Non potete limitarvi a stare sulle torri,» disse, mentre tracciava una mappa della comunità su un pezzo di carta. «Dovete muovervi, controllare i dintorni. Se aspettate che il nemico arrivi al cancello, avete già perso.»
Le guardie, inizialmente scettiche, cominciarono a rispettare Marcus. Non era solo un vagabondo: sapeva quello che diceva, e le sue idee potevano fare la differenza.
Helen lo osservò con attenzione. «Non pensavo fossi il tipo da condividere la tua esperienza,» disse a un certo punto.
Marcus si accese una sigaretta, guardandola. «Non sono mai stato bravo a costruire niente, ma so come difendere qualcosa. E questo posto… merita una possibilità.»
Nei giorni successivi, la comunità si trasformò. La breccia nel muro fu riparata e rinforzata, e nuove torri di guardia furono costruite. Jack ideò un sistema di trappole intorno al perimetro, mentre Marcus addestrava le guardie a usarle in modo efficace.
Anche gli abitanti iniziarono a sentirsi più sicuri. I bambini giocavano nei cortili, gli adulti lavoravano agli orti e ai laboratori, e le notti erano meno tese.
Un giorno, Helen convocò tutti gli abitanti per una riunione nella piazza centrale. «Abbiamo dimostrato che possiamo sopravvivere,» disse, guardando ognuno negli occhi. «Ma sopravvivere non basta. Dobbiamo costruire qualcosa di duraturo, qualcosa che ci dia una ragione per continuare.»
Gli applausi riempirono l’aria. Per la prima volta, la comunità sembrava unita.
Jack osservò Ethan mentre parlava con Luke ed Emily, il volto rilassato e sorridente. Era una scena che non vedeva da anni. Si avvicinò, posando una mano sulla spalla di suo figlio.
«Come ti trovi qui?» chiese.
Ethan lo guardò, il sorriso ancora presente. «Bene, papà. Sembra… normale. O almeno, il più normale possibile.»
Jack annuì, sentendo un peso sollevarsi dal petto. «Stai facendo un buon lavoro. Sono fiero di te.»
Ethan si illuminò, quelle parole significavano più di quanto Jack potesse immaginare.
Nonostante i progressi, Jack sapeva che il pericolo era sempre in agguato. Una sera, mentre camminava lungo il perimetro con Marcus, sollevò la questione.
«Quanto tempo pensi che abbiamo prima che qualcuno provi di nuovo ad attaccarci?» chiese.
Marcus si fermò, guardando il buio oltre il muro. «Non molto. Quando una comunità diventa forte, attira attenzioni. Buone e cattive.»
Jack annuì. «Allora dobbiamo essere pronti.»
Helen li raggiunse poco dopo, portando una mappa. «Abbiamo bisogno di esplorare i dintorni,» disse. «Ci servono più risorse, ma anche più informazioni. Se c’è un’altra banda nelle vicinanze, dobbiamo saperlo.»
Jack guardò Marcus, poi Helen. «Andrò io. E Marcus verrà con me.»
Helen sembrò sollevata. «Grazie. Non sarà un compito facile, ma è necessario.»
Mentre la notte calava, Jack sapeva che la loro missione avrebbe potuto decidere il destino della comunità. Ma per la prima volta, sentiva di avere qualcosa per cui lottare davvero: una casa, e un futuro per suo figlio.
Capitolo 15 – L’Ombra della Tempesta
Era una notte silenziosa, troppo silenziosa. L’aria era immobile e il cielo coperto da dense nuvole che oscuravano la luna. Jack, Marcus e alcune guardie si trovavano sulle torri di guardia, pattugliando il perimetro. La comunità dormiva, esausta dai lavori di ricostruzione.
Jack, osservando l’orizzonte, sentiva una strana inquietudine crescere dentro di sé. Il silenzio non era mai un buon segno. Fece scorrere lo sguardo sulla linea degli alberi, cercando movimenti sospetti. «C’è qualcosa che non va,» disse a Marcus, che si trovava poco più in là.
Marcus annuì, accendendo una sigaretta e scrutando l’oscurità. «Sì. È troppo tranquillo.»
All’improvviso, un grido soffocato ruppe il silenzio. Proveniva dalla parte ovest della comunità. Jack scese dalla torre di guardia con Marcus al seguito. Quando arrivarono al punto, trovarono una delle guardie accasciata a terra, con una freccia conficcata nella spalla.
«Sono qui,» sussurrò la guardia, stringendo i denti per il dolore. «Non li ho visti… si muovono come ombre.»
Jack si inginocchiò accanto a lui. «Chi? Quanti?»
La guardia scosse la testa. «Non lo so. Ma sono già dentro.»
Jack si voltò verso Marcus. «Abbiamo un’infiltrazione. Sveglia Helen e raduna le guardie. Dobbiamo trovare questi bastardi prima che facciano danni.»
Marcus annuì e corse via, mentre Jack si muoveva silenziosamente tra le ombre. L’illuminazione nella comunità era minima, il che giocava a favore degli intrusi. Mentre avanzava, sentì un leggero rumore dietro di sé. Si voltò appena in tempo per vedere una figura avvicinarsi con un coltello.
Con un movimento rapido, Jack afferrò il braccio dell’assalitore e lo disarmò, colpendolo con un pugno al volto. L’uomo crollò a terra, privo di sensi. Era vestito di nero, con una bandana che copriva il volto.
«Non sei uno dei soliti saccheggiatori,» mormorò Jack, osservando l’assalitore svenuto.
Mentre Jack legava il prigioniero, un’esplosione fece tremare l’aria. Proveniva dall’area degli orti, dove i serbatoi di carburante erano immagazzinati. Le fiamme illuminarono il cielo, e la comunità si svegliò di soprassalto.
Helen arrivò di corsa, con un gruppo di guardie al seguito. «Che diavolo sta succedendo?» chiese, il volto contratto dalla tensione.
Jack indicò il prigioniero. «Hanno fatto saltare qualcosa. Non sono molti, ma sono organizzati. Questo non è un attacco casuale.»
Helen si inginocchiò accanto al prigioniero e gli tolse la bandana. Era un uomo giovane, con un tatuaggio sulla tempia: un simbolo che non riconosceva. «Chi sei? Chi ti manda?» chiese, ma l’uomo non rispose.
Marcus si avvicinò, osservando il tatuaggio. «Questo è un marchio. È una banda del sud-est. Mercenari. Non lavorano mai senza uno scopo.»
Helen si irrigidì. «Qualcuno ci ha venduti?»
Marcus annuì lentamente. «O qualcuno vuole ciò che abbiamo. E ha pagato loro per prenderselo.»
Nel frattempo, gli abitanti si erano riuniti nel cortile centrale. Jack prese il controllo della situazione. «Tutti i civili restino nell’edificio principale. Guardie, posizionatevi intorno al perimetro e tenete gli occhi aperti. Questi bastardi sono ancora dentro.»
Ethan cercò di avvicinarsi al padre, ma Jack lo bloccò. «Rimani con gli altri, Ethan.»
«Posso aiutare!» protestò il ragazzo.
Jack si chinò, guardandolo negli occhi. «Lo so. Ma voglio che tu stia al sicuro. Proteggi gli altri. Questo è il tuo compito.»
Ethan annuì, anche se con riluttanza, e si unì al gruppo di civili.
Jack e Marcus guidarono le guardie in una ricerca sistematica. Trovarono altri due intrusi nascosti vicino al deposito di armi, ma il resto del gruppo sembrava essersi ritirato. Tuttavia, sapevano che il danno era già stato fatto: l’esplosione aveva distrutto parte delle riserve di carburante e diversi orti erano stati bruciati.
Quando la situazione fu sotto controllo, Helen convocò Jack, Marcus e il consiglio. «Questi non sono semplici saccheggiatori,» disse, indicando il prigioniero legato. «Sanno cosa fanno e perché lo fanno.»
Jack annuì. «E sanno dove colpire. Qualcuno ci ha traditi.»
Helen serrò la mascella. «Dobbiamo scoprire chi.»
Marcus guardò Jack. «Questo cambia tutto. Non possiamo aspettare che tornino. Dobbiamo prendere l’iniziativa.»
Jack annuì lentamente. «Sono d’accordo. Ma dobbiamo essere intelligenti. Scoprire chi li manda, perché, e fermarli prima che distruggano tutto ciò che abbiamo costruito.»
Helen guardò i due uomini, poi annuì. «Allora iniziamo a pianificare. Non permetteremo che ci spazzino via.»
Mentre la notte avanzava e la comunità cercava di riprendersi, Jack osservava Ethan dormire insieme agli altri civili. Si sentiva responsabile per ogni persona dentro quelle mura.
Marcus si avvicinò, posando una mano sulla spalla di Jack. «Sai che questo è solo l’inizio, vero?»
Jack annuì, il volto cupo. «Lo so. Ma combatteremo.»
Mentre il sole iniziava a sorgere, Jack sapeva che il giorno successivo avrebbe portato nuove sfide. E che il nemico che si nascondeva nell’ombra non avrebbe aspettato a lungo prima di colpire di nuovo.
Capitolo 16 – Il Contrattacco
La mattina successiva, la comunità era già in fermento. Jack e Marcus avevano passato la notte a pianificare il prossimo passo, studiando le informazioni raccolte dal prigioniero. Non aveva detto molto, ma il simbolo tatuato sulla sua tempia e alcuni dettagli lasciati sfuggire avevano dato a Marcus un’idea chiara di chi fosse dietro l’attacco.
«È il clan di Stonewater,» spiegò Marcus a Helen e al consiglio riunito. «Una banda di mercenari che si è stabilita nelle vecchie fabbriche a sud-est. Sono ben armati, ma non invincibili. Hanno attaccato perché qualcuno li ha pagati o perché vogliono le nostre risorse. In ogni caso, se non reagiamo, torneranno.»
Helen annuì, il volto cupo. «Non possiamo aspettare che ci distruggano. Ma attaccarli significa rischiare molto.»
Jack si appoggiò al tavolo, tracciando una linea sulla mappa che avevano recuperato. «Non possiamo distruggerli frontalmente. Sono troppi. Ma possiamo colpirli dove fa più male: le loro riserve di armi e carburante. Senza quelle, saranno indeboliti e costretti a ritirarsi.»
Helen guardò Jack. «Tu guidi l’operazione. Di cosa hai bisogno?»
Jack si voltò verso Marcus. «Io, Marcus, e un piccolo gruppo di volontari esperti. Non più di sei persone. Troppi attirerebbero attenzione.»
Helen annuì. «Avrai ciò che ti serve. Ma fai attenzione, Jack. Non possiamo permetterci di perdere altri.»
Nel pomeriggio, Jack selezionò il gruppo. Marcus, ovviamente, sarebbe stato il suo secondo, mentre due delle guardie più esperte, Anna e Luis, si unirono a loro. Helen insistette perché prendessero anche un giovane scout, Caleb, abile a muoversi silenziosamente e a individuare percorsi sicuri.
Ethan si avvicinò mentre Jack preparava l’equipaggiamento. «Voglio venire con te.»
Jack lo guardò, scuotendo la testa. «Non è il tuo momento, Ethan. Questo è pericoloso.»
«Ma posso aiutare!» insistette il ragazzo.
Jack si chinò, posandogli una mano sulla spalla. «Hai aiutato abbastanza. Proteggi la comunità mentre sono via. Questo è il tuo compito.»
Ethan abbassò lo sguardo, ma annuì. «Stai attento, papà.»
Jack gli diede un rapido abbraccio. «Sempre.»
Il gruppo lasciò la comunità al tramonto, muovendosi con cautela tra i boschi e le strade deserte. Il loro obiettivo era raggiungere le fabbriche di Stonewater prima dell’alba, per sfruttare il buio e il vantaggio della sorpresa.
Marcus guidava il gruppo, con Caleb che controllava i dintorni. Ogni passo era calcolato, ogni rumore analizzato. Dopo ore di marcia, raggiunsero una collina che si affacciava sul complesso delle fabbriche.
Da lì, poterono vedere l’insediamento nemico: una serie di edifici in rovina, ma ben sorvegliati. Guardie armate pattugliavano il perimetro, e un deposito di carburante si trovava al centro del complesso, accanto a un magazzino che probabilmente conteneva armi.
Jack osservò il tutto attraverso un binocolo. «Quello è il nostro obiettivo,» disse, indicando il deposito. «Marcus, tu e Caleb vi occuperete delle guardie sul lato ovest. Io, Anna e Luis entreremo dal lato est e piazzeremo gli esplosivi.»
Marcus annuì, un sorriso storto sul volto. «Sempre i lavori divertenti per me.»
Il gruppo si divise. Marcus e Caleb si avvicinarono al lato ovest, eliminando silenziosamente due sentinelle con coltelli. Nel frattempo, Jack e il resto del gruppo raggiunsero il lato est, passando tra le ombre e sfruttando la copertura dei macchinari abbandonati.
Quando raggiunsero il deposito di carburante, Jack tirò fuori gli esplosivi artigianali che avevano preparato. Luis e Anna li piazzarono rapidamente intorno alle cisterne, mentre Jack copriva l’area. «Cinque minuti,» disse Jack, controllando l’orologio. «Poi torniamo indietro.»
Proprio mentre si stavano ritirando, una guardia li vide e gridò l’allarme.
In un attimo, il complesso si animò. Le luci si accesero, e uomini armati iniziarono a uscire dai magazzini. Jack e il suo gruppo si rifugiarono dietro un muro, rispondendo al fuoco.
Marcus e Caleb, sentendo l’allarme, si unirono alla battaglia dal lato ovest, creando una distrazione. «Ci hai messo troppo, Jack!» urlò Marcus, sparando a una guardia che si avvicinava.
«Siamo ancora vivi, no?» ribatté Jack, tirando fuori un fucile e abbattendo un altro nemico.
Gli esplosivi erano piazzati, ma avevano bisogno di tempo per attivarsi. «Anna, copri il lato destro!» ordinò Jack. «Luis, proteggi Caleb!»
Le guardie nemiche erano numerose, ma disorganizzate. Il caos giocava a favore di Jack e dei suoi compagni. Finalmente, il timer sugli esplosivi raggiunse lo zero.
Un’esplosione enorme illuminò il cielo, seguita da un’altra, poi un’altra ancora. Le cisterne di carburante esplosero in una sequenza devastante, distruggendo gran parte del complesso. Le guardie nemiche, colte di sorpresa, iniziarono a fuggire in preda al panico.
«È ora di andare!» gridò Jack, guidando il gruppo verso l’uscita.
Si mossero rapidamente, eliminando le ultime resistenze e lasciando dietro di sé un complesso in fiamme. Quando raggiunsero una distanza di sicurezza, si fermarono per riprendere fiato.
Marcus si accese una sigaretta, sorridendo. «Beh, direi che si accorgeranno che siamo passati.»
Jack annuì, guardando le fiamme all’orizzonte. «Abbiamo mandato un messaggio. Ora tocca a loro decidere se vogliono continuare.»
Quando il gruppo tornò alla comunità, furono accolti da applausi e abbracci. Ethan corse incontro a Jack, gettandogli le braccia al collo. «Sei tornato!»
Jack lo strinse forte. «Sempre.»
Helen si avvicinò, osservando il gruppo. «Missione compiuta?»
Jack annuì. «Le loro riserve di carburante sono cenere. Hanno subito un duro colpo. Ma dobbiamo restare vigili. Potrebbero voler vendetta.»
Helen sorrise debolmente. «Grazie, Jack. Senza di voi, questa comunità non avrebbe avuto una possibilità.»
Mentre la comunità si preparava a riprendere la sua routine, Jack si rese conto che la lotta per la sopravvivenza era tutt’altro che finita. Ma quella notte, almeno, avevano vinto.
Capitolo 17 – Le Conseguenze del Contrattacco
La mattina seguente, l’atmosfera nella comunità era diversa. C’era un senso di vittoria, ma anche un’ombra di preoccupazione. Jack, Marcus e il resto del gruppo erano stati accolti come eroi al loro ritorno, ma sapevano bene che il colpo inflitto al clan di Stonewater non sarebbe rimasto impunito.
Helen convocò il consiglio per discutere il futuro della comunità. Jack e Marcus erano presenti, insieme ad altre figure chiave. Helen posò la mappa sul tavolo, indicando la zona delle fabbriche. «Abbiamo inflitto loro un duro colpo, ma non sappiamo quanto siano ancora forti. Potrebbero riorganizzarsi e attaccarci, o potrebbero cercare rinforzi.»
Jack annuì. «Non possiamo abbassare la guardia. Dobbiamo rafforzare ulteriormente le difese e organizzare pattuglie regolari. Inoltre, dobbiamo scoprire se hanno altre basi.»
«E le risorse?» chiese Sarah, la responsabile degli approvvigionamenti. «Abbiamo perso una parte dei raccolti e carburante. Non possiamo permetterci di restare bloccati qui.»
Helen annuì. «Avete ragione. Dobbiamo trovare un equilibrio tra difesa e ricerca di nuove risorse. Ma la priorità è proteggere la comunità.»
Mentre la comunità lavorava per riparare i danni, Jack notò un cambiamento nell’atteggiamento degli abitanti. L’euforia iniziale si era trasformata in tensione. Le persone guardavano oltre le mura con sospetto, aspettandosi un attacco imminente.
Ethan, che aveva ripreso a lavorare con Luke ed Emily, sembrava più determinato che mai. «Papà,» disse una sera mentre cenavano insieme, «non possiamo solo difenderci per sempre. Dobbiamo trovare un modo per vivere davvero.»
Jack lo guardò con un sorriso stanco. «Stiamo cercando di farlo, Ethan. Ma a volte sopravvivere è già una vittoria.»
Ethan abbassò lo sguardo. «Forse, ma non possiamo continuare così per sempre.»
Due giorni dopo, mentre Jack era di pattuglia con Marcus, una figura solitaria apparve all’orizzonte. Era un uomo, con un drappo bianco legato al braccio, segno di resa o di negoziazione. Le guardie sulle torri lo notarono subito e suonarono l’allarme.
Jack e Marcus si avvicinarono al cancello, dove Helen e alcune guardie li stavano già aspettando. L’uomo era magro, con i vestiti sporchi e il volto segnato dalla fatica. Quando si avvicinò, alzò le mani in segno di pace.
«Vengo in pace,» disse, la voce rauca. «Sono un messaggero del clan di Stonewater.»
Helen lo guardò con sospetto. «Perché siete qui?»
L’uomo fece un passo avanti, ma le guardie lo fermarono. «Non vogliamo un altro scontro,» disse. «Avete distrutto il nostro deposito. Siamo stati costretti a ritirarci. Ma il nostro leader vuole incontrarvi.»
«Incontrarci?» ripeté Jack, scettico. «Per cosa?»
«Per negoziare,» rispose l’uomo. «Ha un’offerta. Vuole un incontro fuori da qui, in terreno neutrale.»
Helen si voltò verso Jack e Marcus. «Che ne pensate?»
Marcus scrollò le spalle. «Potrebbe essere una trappola. Ma potrebbe anche essere un’opportunità per evitare un altro attacco.»
Jack annuì lentamente. «Non possiamo ignorarlo. Ma dobbiamo essere preparati. Non andremo senza precauzioni.»
Il consiglio decise di accettare l’invito, ma con estrema cautela. Jack, Marcus e Helen avrebbero partecipato all’incontro, portando con sé un piccolo gruppo di guardie come supporto. Il messaggero fornì loro le coordinate: un vecchio magazzino abbandonato a metà strada tra la comunità e le fabbriche.
Ethan si avvicinò a Jack mentre si preparava. «Vuoi davvero incontrarli?»
«Non abbiamo scelta,» rispose Jack. «Se riusciamo a evitare un altro scontro, dobbiamo provarci.»
«E se è una trappola?»
Jack posò una mano sulla spalla del figlio. «Allora faremo quello che dobbiamo per tornare indietro. Ma voglio che tu resti qui e aiuti Helen a organizzare tutto in caso non tornassimo subito.»
Ethan annuì, anche se a malincuore. «Stai attento.»
Jack, Marcus, Helen e il gruppo selezionato partirono all’alba, viaggiando con cautela verso il luogo dell’incontro. Quando arrivarono, trovarono il magazzino sorvegliato da un gruppo di uomini armati. Nonostante le armi, non mostrarono segni di aggressività, limitandosi a scortarli all’interno.
Dentro, seduto su una vecchia cassa, c’era il leader del clan di Stonewater. Era un uomo imponente, con una cicatrice che gli attraversava il volto e un sorriso freddo. «Benvenuti,» disse, alzandosi. «Mi chiamo Briggs. Sono il leader del clan.»
Helen prese la parola. «Cosa volete?»
Briggs si accarezzò il mento, guardando i nuovi arrivati con interesse. «Non voglio distruggervi,» disse. «Voglio collaborare.»
Marcus rise amaramente. «Collaborare? Dopo quello che avete fatto?»
Briggs alzò una mano per fermarlo. «Siamo stati pagati per attaccarvi. Ma il cliente che ci ha ingaggiati non era chi diceva di essere. Ora, dopo il vostro contrattacco, sappiamo che siete più di una semplice comunità. Siete forti. E potremmo aiutarci a vicenda.»
Jack lo fissò con sospetto. «Perché dovremmo fidarci di te?»
Briggs sorrise. «Non vi sto chiedendo di fidarvi. Vi sto offrendo un’opportunità. Il mondo là fuori è pieno di pericoli, ma se uniamo le forze, possiamo sopravvivere. Voi avete risorse e stabilità. Noi abbiamo esperienza e armi.»
Helen scambiò uno sguardo con Jack e Marcus. Era una proposta pericolosa, ma forse necessaria.
Dopo l’incontro, il gruppo tornò alla comunità per discutere la proposta di Briggs. Le opinioni erano divise: alcuni credevano che fosse un rischio troppo grande, altri pensavano che un’alleanza potesse rafforzare la comunità.
Jack, seduto con Helen e Marcus, rifletteva. «Non mi fido di lui,» disse. «Ma non possiamo ignorare il fatto che il mondo là fuori sta diventando sempre più pericoloso.»
Helen annuì. «Se accettiamo, dobbiamo stabilire delle regole chiare. E dobbiamo essere pronti a reagire se ci tradiscono.»
Marcus si accese una sigaretta. «A volte, il nemico che conosci è meglio di quello che non conosci.»
Alla fine, la comunità decise di tentare. Ma tutti sapevano che questa nuova alleanza avrebbe portato nuove sfide e, forse, nuovi pericoli.
Capitolo 18 – Un Traditore tra di Noi
Le settimane successive all’accordo con il clan di Stonewater furono un misto di tensione e progresso. La comunità iniziò a collaborare con i mercenari, ottenendo armi e addestramento in cambio di cibo e rifugio temporaneo per alcuni membri. Tuttavia, la diffidenza era palpabile, e Jack sapeva che il vero pericolo poteva essere ancora in agguato.
Una sera, mentre Jack stava perlustrando il perimetro con Marcus, notarono un’ombra che si muoveva furtivamente vicino al magazzino principale. «Vieni,» disse Jack sottovoce, avvicinandosi con cautela.
La figura cercava di forzare una finestra. Quando Jack puntò la torcia, vide uno dei membri della comunità, Luke, il figlio maggiore di Tom. «Che diavolo stai facendo?» chiese Jack, afferrandolo per il braccio.
Luke cercò di divincolarsi. «Lasciami andare!»
«No, non finché non mi dici cosa stai facendo qui!» insistette Jack, stringendo la presa.
Marcus intervenne, togliendogli di mano una radio portatile. «Interessante,» disse, accendendo l’apparecchio. «Stai parlando con qualcuno?»
Luke abbassò lo sguardo, il volto pallido. «Non capite… non avevo scelta.»
Portarono Luke davanti a Helen e al consiglio. Sotto interrogatorio, il ragazzo confessò: «Sono stato io a dare le informazioni al clan di Stonewater. Mi hanno minacciato. Hanno detto che avrebbero ucciso la mia famiglia se non avessi collaborato.»
Helen era furiosa. «Hai messo tutti in pericolo! E per cosa? Per paura?»
Jack intervenne, più calmo ma altrettanto determinato. «Luke, chi ti ha minacciato? Briggs non avrebbe avuto bisogno di un informatore per l’attacco. Qualcuno ti ha manipolato.»
Luke esitò, poi parlò con voce tremante. «Non era Briggs. Era un uomo, un uomo che si fa chiamare Kane. Dice di controllare tutto il territorio a sud. È lui che ha pagato il clan per attaccarvi. Vuole le vostre risorse… e questa comunità.»
Un silenzio teso calò sulla stanza. Helen fissò Jack. «Kane. Ne hai mai sentito parlare?»
Marcus annuì lentamente. «L’ho sentito nominare. È un trafficante, uno spietato stratega. Non si sporca mai le mani, ma comanda intere bande. Se è lui il vero nemico, siamo in guai seri.»
Jack, Helen e Marcus sapevano che non potevano aspettare che Kane colpisse di nuovo. «Dobbiamo agire prima che lo faccia lui,» disse Jack. «Se lasciamo che rafforzi il controllo sul territorio, saremo vulnerabili. E dobbiamo farlo senza Stonewater. Non possiamo rischiare che si voltino contro di noi.»
Helen concordò. «Un attacco mirato, rapido e deciso. Dobbiamo eliminare la sua base operativa e spezzare la sua rete di controllo.»
Riunirono un piccolo gruppo selezionato: Jack, Marcus, Caleb, e due delle guardie più fidate. Sarebbe stata una missione pericolosa, ma necessaria. Lasciarono la comunità all’alba, dirigendosi verso le coordinate fornite da Luke.
La base di Kane era un’ex fabbrica trasformata in una fortezza. Guardie armate pattugliavano il perimetro, e torrette improvvisate proteggevano l’ingresso principale. Jack studiò la struttura con il binocolo. «Non possiamo affrontarli frontalmente. Dobbiamo entrare silenziosamente e colpire al cuore.»
Il gruppo si divise. Marcus e Caleb distrassero le guardie esterne, piazzando esplosivi vicino a uno dei generatori per creare un diversivo. Jack e gli altri entrarono attraverso un condotto abbandonato, muovendosi rapidamente verso il centro della base.
Quando raggiunsero l’ufficio di Kane, lo trovarono ad aspettarli. Era un uomo alto, vestito elegantemente, con un sorriso freddo. «Finalmente,» disse, alzandosi. «Stavo aspettando.»
Jack puntò l’arma contro di lui. «Finisce qui, Kane.»
Kane sollevò le mani, apparentemente calmo. «Davvero? Pensate che uccidermi risolverà qualcosa? Ci sono altri come me, e più forti. Io non sono il problema. Io sono l’ordine in questo caos.»
Jack strinse i denti. «Sei solo un altro tiranno che sfrutta la debolezza degli altri.»
Kane rise. «E voi? Pensate di essere diversi? State costruendo un mondo che non può sopravvivere. Ma se volete provare, fatelo. Uccidetemi. Vediamo quanto dura il vostro sogno.»
Jack non esitò. Premette il grilletto.
Con Kane morto, il gruppo piazzò esplosivi in tutta la fabbrica e fuggì. L’intero complesso esplose in un inferno di fuoco, distruggendo le riserve di armi e le reti di comunicazione di Kane. Mentre tornavano alla comunità, Jack sapeva che avevano vinto una battaglia cruciale, ma il costo era alto.
Epilogo – La Rinascita
Le settimane seguenti videro la comunità rinascere. Con Kane eliminato, il clan di Stonewater si ritirò completamente, scegliendo di non interferire più. Helen, Jack e Marcus lavorarono insieme per rafforzare le difese e creare una rete di alleanze con altre piccole comunità vicine.
Ethan trovò un ruolo stabile, guidando i giovani della comunità in nuovi progetti. «Papà,» disse un giorno, «forse possiamo davvero costruire qualcosa qui.»
Jack lo guardò, il cuore finalmente leggero. «Sì, Ethan. Possiamo.»
La comunità continuò a crescere, un faro di speranza in un mondo spezzato. E Jack sapeva che, anche se il futuro era incerto, avevano trovato qualcosa per cui valeva la pena lottare.
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