Prologo: Il Giuramento
Roma, 217 a.C.
Le fiamme crepitavano, illuminando i volti segnati degli uomini inginocchiati di fronte all’altare del tempio. L’aria era densa, carica dell’odore di incenso e di cera bruciata. Sotto il cielo plumbeo di Roma, il crepuscolo sembrava preannunciare giorni di tempesta. Al centro del gruppo, un uomo anziano dal viso segnato dalle rughe e dagli anni di battaglia, Tito Manlio, stava in piedi con lo sguardo fisso sull’orizzonte, come se potesse vedere il destino della città attraverso la cortina di fumo.
«Roma è sull’orlo del baratro», disse con voce grave, che vibrava nell’aria pesante. «Annibale ha già piegato il nostro esercito tre volte, ma questa città non cade così facilmente. Oggi giuriamo su questo altare di proteggere la nostra patria, anche con il nostro sangue.»
Lucio Valerio, il più giovane tra i presenti, sentiva un nodo allo stomaco. Era sempre stato orgoglioso di essere un soldato romano, ma mai come in quel momento aveva sentito così pesante il fardello della responsabilità. Annibale, il temuto generale cartaginese, stava avanzando verso Roma, e ogni giorno che passava portava nuove notizie di devastazione. I suoi occhi seguirono il pugnale che Manlio sollevò verso il cielo.
Il vecchio tagliò la propria mano, lasciando che il sangue scivolasse lungo il pugnale d’argento e cadesse sul marmo dell’altare. Marco Flavio, amico di Lucio fin dall’infanzia, era il secondo. Prese il pugnale con mani tremanti, ma senza esitazione tagliò la propria pelle, con il sangue che si univa a quello di Manlio.
Quando toccò a Lucio, il giovane sollevò lo sguardo. Le statue degli dèi sembravano osservarlo, giudicando ogni sua mossa. La lama scivolò sulla pelle e il sangue uscì, rosso e caldo. Nonostante il dolore, sentì crescere dentro di lui una risoluzione incrollabile. Roma non sarebbe caduta sotto i suoi occhi.
I quattro uomini si alzarono, i loro destini ora intrecciati non solo dal giuramento, ma dal peso di ciò che sarebbe venuto. «Preparatevi», disse Manlio con voce bassa ma ferma. «Il tempo dell’azione è vicino. Annibale ci attende.»
Capitolo 1: Le Ombre di Canne
Il sole splendeva alto nel cielo, ma il suo calore non portava conforto. Lucio Valerio sentiva ogni passo pesare sulle sue gambe stanche, mentre l’esercito romano marciava verso la battaglia. Intorno a lui, i ranghi si muovevano in silenzio. Ogni soldato conosceva la gravità della situazione: Annibale, con il suo esercito cartaginese, era a poche miglia di distanza, pronto a sferrare un altro colpo mortale.
Gli ultimi mesi erano stati un incubo per Roma. Le sconfitte subite a Trebbia, al Lago Trasimeno e ora la marcia verso Canne, avevano ridotto l’esercito a un mucchio di uomini demoralizzati e spaventati. Ma il console Lucio Emilio Paolo aveva deciso di affrontare Annibale in un ultimo scontro. Roma non poteva permettersi di essere vista debole dalle sue città alleate. Se avesse perso di nuovo, l’intera repubblica sarebbe stata messa in ginocchio.
Marco Flavio si avvicinò a Lucio, le spalle pesanti sotto il peso dell’armatura e dello scudo. «Pensi davvero che possiamo vincere?» chiese, la voce bassa per paura di essere udito. Gli occhi di Flavio tradivano la sua paura. Come tutti, anche lui sapeva che Annibale era un avversario diverso dagli altri: un genio militare capace di ribaltare ogni previsione.
Lucio strinse il gladio con forza, come se potesse trovare in esso il coraggio necessario. «Non lo so», rispose, «ma non abbiamo scelta. Dobbiamo combattere.»
La notte che precedette la battaglia fu inquietante. Lucio fissava il cielo sopra l’accampamento, le stelle sembravano così lontane e indifferenti alla sorte degli uomini che, all’alba, avrebbero versato il proprio sangue. I soldati intorno a lui riposavano poco e parlavano meno. Alcuni pregavano gli dei, altri si stringevano agli amuleti, cercando conforto nel pensiero di un qualche intervento divino.
Capitolo 2: La Battaglia di Canne
Il suono dei corni da guerra risuonava in lontananza, e l’alba era appena sorta quando l’esercito romano iniziò a schierarsi. Lucio era in prima fila, al centro della formazione, con lo scudo stretto in una mano e il gladio nell’altra. Il suo cuore batteva forte nel petto, ma la mente era concentrata. Ogni fibra del suo essere sapeva che quello era il momento decisivo.
Il console Lucio Emilio Paolo aveva scelto una tattica di forza bruta: l’esercito romano, numericamente superiore, avrebbe dovuto sfondare il centro delle linee cartaginesi, distruggendole con un attacco frontale. Ma Annibale, come spesso faceva, sembrava disposto a lasciare che ciò accadesse.
L’avanzata iniziò lentamente, con i soldati romani che spingevano in avanti contro il centro nemico. Per un breve momento, sembrò che il piano potesse funzionare. Le linee cartaginesi arretravano sotto la pressione delle legioni. Ma poi, tutto cambiò.
Dai lati dello schieramento romano, le truppe cartaginesi, tra cui la cavalleria e i mercenari numidi, si mossero con una precisione letale. Annibale aveva orchestrato una manovra perfetta: mentre il centro arretrava, le ali dell’esercito nemico si chiudevano rapidamente attorno ai fianchi romani, accerchiandoli in una trappola mortale.
Lucio vide il caos esplodere intorno a lui. I soldati romani, ormai circondati, cercavano di resistere, ma lo spazio si restringeva rapidamente, e presto non ci fu più via di fuga. Il campo di battaglia si trasformò in un inferno: grida di disperazione, il clangore delle spade, il suono della carne lacerata. Lucio combatteva con ogni fibra del suo corpo, cercando di respingere l’attacco, ma la marea dei nemici sembrava inarrestabile.
Vide Marco Flavio cadere accanto a lui, colpito da una lancia nemica. Il suo corpo crollò pesantemente a terra, il sangue che si mescolava alla polvere e al fango. Lucio si gettò sopra di lui, cercando di respingerli, ma sentì una forza violenta colpire la sua testa. Un colpo improvviso, e tutto diventò nero.
Capitolo 3: La Rinascita dei Valorosi
Lucio, con le ultime forze che gli rimanevano, si alzò, appoggiandosi all’uomo più anziano. Il suo corpo tremava per il dolore e la fatica, ma l’adrenalina e la determinazione lo tenevano in piedi. I pochi sopravvissuti alla battaglia di Canne si stavano radunando a piccoli gruppi, smarriti, ma vivi.
Il cielo sopra di loro era ormai chiaro, e la brezza che si sollevava dal campo portava con sé l’odore della morte. Migliaia di corpi giacevano intorno a loro, mentre gli avvoltoi giravano in cerchi sopra le teste, pronti a festeggiare. Lucio guardava quella devastazione, incapace di comprendere come Roma potesse riprendersi da un simile disastro. Mai prima d’ora aveva visto il suo esercito così completamente distrutto.
Tito Manlio, con il viso rigido di chi aveva vissuto troppe battaglie, prese Lucio per le spalle e lo scosse. «Ascoltami, ragazzo,» disse con una voce ferma, ma quasi paterna. «Roma non cade così facilmente. Annibale ha vinto una battaglia, ma la guerra è ancora lunga.»
«Ma come?» chiese Lucio, il volto contorto dal dolore e dalla disperazione. «Abbiamo perso tutto. Guardati intorno! Quanti ne sono rimasti?»
«Abbiamo perso uomini, sì,» rispose Manlio con tono calmo, «ma Roma è più di un esercito. Roma è la sua gente, la sua volontà, e finché anche un solo romano rimane in piedi, Annibale non ha vinto. Adesso dobbiamo tornare a casa. Roma ci aspetta.»
Con quella promessa, i pochi sopravvissuti si misero in marcia verso il sud, verso Brindisi, dove avrebbero trovato rifugio. Camminarono per giorni, esausti e affamati, ma senza perdere di vista l’obiettivo: tornare a Roma. Quando infine raggiunsero Brindisi, Lucio non era più lo stesso giovane che aveva giurato sul Palatino. Aveva visto la morte in faccia, aveva perso amici e compagni, ma il fuoco dentro di lui bruciava ancora. La vendetta, la rabbia e il desiderio di proteggere la sua città lo guidavano.
Capitolo 4: La Difesa di Roma
Roma era in tumulto quando Lucio Valerio e i suoi compagni sopravvissuti tornarono in città. La notizia della sconfitta di Canne aveva già raggiunto la capitale e aveva gettato i cittadini nel panico. Le strade erano affollate di persone che parlavano a voce alta, diffondendo voci di tradimenti e disastri imminenti. Alcuni proponevano di arrendersi ad Annibale, altri invocavano l’intervento degli dèi. Ma il Senato, nella sua grande saggezza, aveva già preso una decisione cruciale: Roma non si sarebbe arresa.
Fabio Massimo, il “Temporeggiatore”, era stato richiamato a Roma per guidare la difesa della città. Fabio, con la sua strategia di evitare scontri diretti con Annibale e logorare lentamente le sue forze, era stato criticato da molti, ma dopo Canne, il suo approccio sembrava essere l’unica speranza. Lucio si presentò al comando di Fabio, con il corpo e l’animo segnati dalle battaglie. Aveva perso amici, dignità e speranza, ma non era ancora sconfitto.
Fabio Massimo lo accolse con un sorriso stanco, ma pieno di riconoscimento. «Sei sopravvissuto a Canne,» disse con un tono rispettoso. «Non molti possono dire lo stesso. Roma avrà bisogno di uomini come te nei giorni a venire.»
Lucio annuì. «Farò tutto ciò che è necessario per difendere la città.»
I mesi che seguirono furono tra i più difficili nella storia di Roma. Annibale, nonostante la sua vittoria schiacciante a Canne, non marciò subito su Roma. Fabio sapeva che il generale cartaginese stava cercando alleati tra le città italiane, sperando che si ribellassero contro Roma dopo la sconfitta. Ma la strategia di Fabio era chiara: evitare scontri diretti e logorare l’esercito cartaginese attraverso piccole schermaglie, interruzione delle linee di rifornimento e guerriglia.
Lucio e i suoi compagni furono assegnati a queste missioni. Notte dopo notte, colpivano i campi di Annibale con rapide incursioni, distruggendo provviste e disturbando il riposo delle truppe cartaginesi. Sebbene fossero vittorie minori, Lucio sapeva che stavano guadagnando tempo. Annibale non era più il nemico invincibile che avevano temuto. L’esercito cartaginese cominciava a indebolirsi.
Capitolo 5: L’Ascesa di Scipione
Mentre Fabio Massimo continuava la sua strategia di difesa, una nuova stella stava sorgendo a Roma. Publio Cornelio Scipione, un giovane generale brillante e ambizioso, era emerso come il futuro condottiero della Repubblica. Mentre Fabio rallentava l’avanzata di Annibale, Scipione puntava a una strategia completamente diversa: portare la guerra lontano dall’Italia, direttamente in Africa.
Lucio Valerio seguì da vicino le gesta di Scipione. Dopo anni di lotta sul suolo italiano, l’idea di colpire Cartagine stessa sembrava audace e rischiosa, ma Scipione non era tipo da accettare la sconfitta. Era convinto che solo una vittoria decisiva sul territorio nemico avrebbe potuto spezzare il dominio di Annibale e restaurare l’onore di Roma.
Lucio, insieme a molti dei suoi compagni sopravvissuti a Canne, fu scelto per far parte della spedizione di Scipione. Il giovane generale aveva osservato la resistenza e la determinazione di quegli uomini e sapeva che sarebbero stati fondamentali per la sua campagna.
Quando la spedizione partì alla volta dell’Africa, Lucio sentiva il cuore battere forte nel petto. Non solo stavano portando la guerra a casa del nemico, ma lo stavano facendo con la promessa di riscatto. Ogni passo che facevano in terra africana, ogni battaglia vinta, era un passo verso la vendetta per i compagni caduti a Canne.
Capitolo 6: La Battaglia di Zama
L’aria in Africa era calda e secca, un contrasto con l’umidità soffocante dell’Italia. L’esercito di Scipione si preparava alla battaglia decisiva. Annibale, costretto a tornare in Africa per difendere la sua patria, aveva radunato le sue truppe per uno scontro finale. Zama sarebbe stata il campo di battaglia dove Roma avrebbe vendicato anni di umiliazioni.
Il giorno della battaglia, l’alba portò con sé una tensione palpabile. Lucio indossò l’armatura, sentendo il peso del metallo sulle spalle. I suoi occhi si posarono sull’orizzonte polveroso, dove l’esercito di Annibale si stava schierando. Questa volta non c’era paura nei suoi occhi, ma solo determinazione.
Scipione aveva preparato una strategia brillante per contrastare gli elefanti da guerra di Annibale, una delle armi più temibili dei cartaginesi. Al suono dei corni, i soldati romani si disposero in modo tale che, quando gli elefanti caricarono, si aprirono dei varchi tra le linee, lasciando passare le bestie senza provocare danni.
Il campo di battaglia si trasformò presto in un turbinio di violenza. Lucio combatteva come un uomo posseduto, ogni colpo di spada portava con sé il ricordo di Canne, di Marco Flavio e di tutti i compagni che aveva perso. La determinazione romana cominciò a prevalere.
Infine, la cavalleria di Massinissa, alleata di Scipione, colpì i cartaginesi sul fianco, completando l’accerchiamento. Annibale, il temuto e imbattibile generale, vide il suo esercito crollare intorno a lui. La vittoria romana era totale.
Quando la polvere si posò e i rumori della battaglia si placarono, Lucio cadde in ginocchio, esausto ma trionfante. Guardò il campo disseminato di cadaveri, e per la prima volta da anni, sentì che la giustizia era stata fatta.
Capitolo 7: Il Ritorno a Roma
Il ritorno a Roma fu segnato da festeggiamenti e trionfi. Scipione fu accolto come un eroe, e gli venne conferito il titolo di “Africano” per la sua straordinaria impresa. Ma per uomini come Lucio Valerio, il trionfo aveva un sapore dolceamaro. Avevano vinto, ma a un prezzo altissimo. Le perdite erano state immense, e molti dei loro amici e compagni non sarebbero mai tornati a casa.
Mentre camminava per le strade di Roma, tra le acclamazioni della folla, Lucio non riusciva a togliersi dalla testa i ricordi delle battaglie, dei corpi ammassati, del sangue versato. La guerra era finita, ma la sua anima portava cicatrici che sarebbero rimaste per sempre.
Nel suo cuore, sapeva che il giuramento fatto quella notte sul Palatino era stato rispettato. Aveva difeso Roma, con il suo sangue, la sua vita, e il sacrificio dei suoi compagni. Ma Roma, la città eterna, avrebbe sempre chiesto altri sacrifici. E Lucio, come molti altri prima di lui, era pronto a rispondere alla chiamata quando sarebbe venuto il momento.
Epilogo: La Gloria di Roma
Gli anni passarono, e Roma continuò a crescere, estendendo il suo dominio sul Mediterraneo. La Seconda Guerra Punica divenne un ricordo lontano, ma le lezioni di quei giorni rimanevano incise nella memoria collettiva della città. Gli uomini che avevano combattuto e sofferto in quelle battaglie furono ricordati non solo come soldati, ma come veri eroi di Roma.
Lucio Valerio, ormai invecchiato, guardava le nuove generazioni di giovani romani marciare per le strade della città, e sentiva un senso di orgoglio. Roma era eterna, e finché ci sarebbero stati uomini disposti a combattere per la sua gloria, la sua eredità sarebbe sopravvissuta nei secoli.
Conclusione
Questo romanzo storico segue il percorso di un gruppo di valorosi romani che, tra sconfitte e trionfi, mettono in gioco tutto per proteggere la loro città. Attraverso le battaglie, i giuramenti e le loro lotte personali, i protagonisti incarnano l’eroismo e la resilienza che hanno reso Roma immortale.
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